Quando si parla di fantasy al giorno d'oggi saltano subito alla mente l'onnipresente "Signore Degli Anelli" tolkieniano e i romanzi di Terry Brooks e, ultimamente, di Christopher Paolini: i mondi evocati sono delicate Terre di Mezzo abitate da elfi e nani, dove coraggiosi guerrieri dai limpidi sentimenti affrontano oscuri Signori del Male chiusi nelle loro torri e inseguono l'amore travagliato e impossibile di qualche esile dama silvana dalle orecchie a punta. I più dimenticano quali furono le radici di questo fortunato genere letterario popolare e quali furono i suoi primi eroi: la verità è che i più dimenticano il ruolo del texano Robert Erwin Howard (1906 - 1936), amico epistolare di Lovecraft e di Clark Ashton Smith, creatore di personaggi come Conan, Kull di Valusia, Bran Mac Morn e molti altri, nonché, prolifico e versatile come pochi, una delle punte di diamante della stampa popolare degli anni '30 e dell'ormai leggendaria rivista "Weird Tales".
Il mondo che ci propone Howard nel suo "ciclo di Conan" è quello di circa 12.000 anni fa, "dopo l'inabissamento di Atlantide e delle città splendenti, ma prima dell'avvento dei figli di Ario" (*), vale a dire prima del fiorire delle civiltà mediterranee che conosciamo: il mondo di Hyboria, abitato da popoli che in qualche modo prefigurano quelli dell'antichità storica (come non riconoscere gli Egizi dietro i misteriosi Stigiani, o i Vichinghi dietro i rudi e sanguinari Aesiri del regno settentrionale di Asgard?), e percorso da maghi, viandanti, pirati, mercenari e demoni legati a ere ancora più antiche. E' in questo mondo, tra città millenarie, deserti e steppe, che trovano luogo le avventurose vicende di Conan, barbaro proveniente dalla Cimmeria, quasi all'estremo Nord del mondo conosciuto.
"Conan Il Conquistatore" (discutibile traduzione italiana di "The Hour Of The Dragon"), è l'ultimo episodio della saga dell'(anti-)eroe cimmero, che lo vede sovrano di Aquilonia (da racconti precedenti sappiamo che, avventuriero indomabile, era salito al trono dopo una ribellione di alcuni baroni contro il re Numedide), il più potente regno del mondo iboriano, detronizzato e imprigionato da una congiura ordita da un nobile dissidente, stanco di vedere lo scettro in mano a un barbaro, con l'appoggio del nemico regno di Nemedia e l'aiuto di uno stregone evocato dalle nebbie dei secoli: Xaltotun, gran sacerdote di Seth a Python, l'antichissima capitale del dimenticato impero di Acheron, che dominava la terra 3000 anni prima. Conan dovrà perciò liberarsi, rintracciare i pochi amici ancora fedeli e cercare, ancora una volta da solo, di recuperare un terribile gioiello, il Cuore di Ahriman, l'unica arma in grado di abbattere il malvagio Xaltotun e rispedirlo all'oblio da cui era stato strappato, recuperando il trono e impedendo il risorgere di Acheron.
Il romanzo, forse non una delle prove migliori di Howard, fu pubblicato poco prima del suo suicidio in seguito al dolore per la perdita della madre, nel 1936, e a distanza di oltre settant'anni riesce ancora a far trattenere il fiato al lettore e a trasportarlo in un mondo avvincente e unico, che come pochi riesce a far rivivere in uno dei suoi momenti più riusciti in tempi odierni il concetto di "epico", che non nasce qui da un particolare modo di scrivere (come in Tolkien, che inserisce brani in versi poetici), ma unicamente dalla fortunatissima ambientazione e dal carattere e dalle gesta del protagonista. Ma Conan non è affatto il prototipo dell'eroe senza macchia: egli non esita infatti ad uccidere e rubare quando ad essere messa in discussione è la sua sopravvivenza ed è tanto coraggioso e pronto ad aiutare chi gli sta simpatico quanto cupo e scontroso, sempre pronto a spiccare teste e a trapassare cuori con il suo spadone a due mani se provocato; la corona e le vesti regali che indossa riescono a malapena a celare questa sua attitudine.
Conan però non è solo un animale rabbioso e feroce, bensì anche un uomo in grado di provare sentimenti e difendere valori che le popolazioni civilizzate hanno dimenticato e proprio questo lo qualifica come "barbaro": ruba e uccide per sopravvivere, ma sa rispettare la parola data e i colpi mortali della sua spada paiono agli occhi del lettore tanto spietati quanto fondamentalmente giusti. Conan non combatte per ideali superiori, universali, di bene e giustizia, ma per sé e per ciò che ritiene più opportuno al momento; libero, grezzo, rozzo e girovago, il nerboruto guerriero passa da un'avventura all'altra sfoggiando un carattere assai diverso da quello di molti personaggi della letteratura successiva, come il vagabondo ma regale Aragorn tolkieniano, i cui atti lasciano sempre trasparire una certa maestà: Conan beve, bestemmia, ruba, attacca risse, gioca d'azzardo, frequenta le bettole e i bordelli assieme ai peggiori elementi delle città in cui soggiorna, incutendo rispetto con la sua sola presenza fisica e la sua vitalità ferina.
L'epica di Howard, di cui il romanzo in questione è in pratica il punto d'arrivo, è tutto questo: come anche in altri suoi cicli letterari, non c'è spazio per la poesia di visioni delicate, ma solo per l'azione brutale e istintiva; non ci sono stratagemmi psicologici, ma mera violenza; non c'è amore, solo l'istinto selvaggio e animale dell'accoppiamento. I suoi eroi non hanno nulla di maestoso, sacrale, solenne, idealizzato o romantico: per ammissione dello stesso autore, Conan è fondamentalmente un bruto, preferisce combattere che trattare, ma nella sua sincerità e stupidità, nelle sue viscerali passioni riesce a incarnare al meglio la proiezione mentale del nostro io più riposto e profondo, fa vibrare corde legate alla nostra sfera più istintiva e animale (o, forse, bambinesca), fa nascere una voglia quasi infantile di brandire quella spada e lanciarci nella carneficina al suo fianco: le sue gesta, collocate in un immaginario passato pseudomitico, sono narrate come avrebbe potuto riferirle lo stesso Conan, potrebbero essere tramandate in eterno, se non si trattasse di letteratura fantasy... e tutto questo non può non essere epico.
(*) Secondo quanto apprendiamo dalle sconosciute "Cronache Nemediane", di cui un passo è posto come epigrafe all'inizio del racconto "The Phoenix On The Sword" (1932).
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