"Amo alla follia la musica pop. Molti grandi compositori si ispirano al folk, io mi ispiro al pop. Non voglio dire che io sono un grande compositore né che il pop è una forma di folk. Ma di sicuro il pop ha generato un flusso senza fine. Puoi anche costruirti il tuo piccolo stagno, ma se lo stagno non è connesso al fiume, che a sua volta sfocia nell'oceano, prima o poi si asciugherà. Diventerà poco più di una pisciata. E io sono vissuto troppo a lungo per essere felice di una pozzanghera" Robert Wyatt.

Una semplice raccolta di b-sides, brani inediti o cover, scartate da qualsiasi album ufficiale, rispolverate per l'occasione per mettere ulteriore carne alla brace da offrire ai seguaci di un qualche grande artista a secco di idee e costretto a tirare a campare? La risposta è no! È Wyatt. E quando si parla di Wyatt il discorso si fa sensibilmente più interessante.

Sono passati ben sette anni dal capolavoro "Ruth Is Stranger Than Richard" (datato 1975) e ne serviranno almeno altri tre per potere assaporare l'uscita di "Old Rottenhat" (l'altro album degli anni ‘80 riconosciuto nella sua discografia ufficiale); in questo non breve intermezzo temporale si colloca "Nothing Can Stop Us" (1982), bizzarro puzzle dal titolo provocatorio che rimescola in un unico calderone brani registrati prevalentemente nel decennio '70-'80, con un Wyatt in splendida forma, calato brillantemente nella veste di arrangiatore, cantante e in parte produttore. La sua voce a sprazzi ironica, a sprazzi intimista, spesso frivola e danzante, cadenzata ed intensa sempre al punto giusto, ci conduce attraverso i tortuosi lidi di una cruda disamina sociale, approntata raccogliendo una manciata di classici significativi e brani tradizionali (tra cui la canzone cubana "Caimanera", conosciuta anche come "Guantanamera", e la dolce "Red Flag").

Questo Wyatt che sorprende per incredibile naturalezza e fantasia, predilige un approccio fascinoso, infarcito di spunti che vanno dal jazz puro ad un certo pop-rock dalle molteplici sfumature, condito da dissonanti, variopinte armonie vocali, ai già plateali riferimenti che sondano più propriamente nell'immensità dell'oceano pop (del quale sente quasi la necessità di dover far parte), senza disdegnare sporadici affreschi etnici (esempio lampante "Trade Union" ed in parte "Grass" di Ivor Cutler ) o tuffi simbolici nella musica sudamericana (vedasi appunto "Caimanera" e "Arauco", cantate entrambe in uno splendido spagnolo). La musica trasuda come sempre un coinvolgente vigore, e tuttavia riesce a conferire un tocco di rilassatezza quasi compassata, dal sapore agrodolce a tratti gioiosa all'intero album, arrivando a filtrare sapientemente la solenne, egemonica tensione che pervade l'essenza delle liriche.

Nonostante la sua natura strutturalmente dispersiva (si tratta in fondo di un artigianale taglia e cuci) questo lavoro acquista, grazie ad una eccellente opera di rifinitura, una certa omogeneità di intenti, riuscendo a proporre nell'arco di 40 minuti scarsi dei momenti davvero interessanti, che non fanno rimpiangere il miglior Wyatt. Il delicato incedere introspettivo di "Strange Fruit" (portata al successo in realtà da Billie Holiday, sorta di canto accorato contro gli atteggiamenti razzisti adottati dall'America nei confronti delle popolazioni di colore) ne è un esempio, mentre il classico wyattiano "Born Again Cretin" (unica sua composizione originale), manifesto prezioso della personale ricerca portata avanti dal geniale compositore inglese, insieme al brillante rifacimento in chiave pop di "At Last I Am Free" degli Chic (considerati tra i pionieri della disco music) emergono come i due veri picchi riusciti di quest'album. Meritano una citazione anche i cori gigioneggianti della patriottica "Stalin Wasn't Stallin'" (composizione di Willie Johnson del 1943, scritta in memoria dell'alleanza concordata tra Stati Uniti e Unione Sovietica per fronteggiare la scalata al potere di Hitler), delizioso ripescaggio insieme al poema "Stalingrad" (dedicato alla battaglia di Stalingrado) di Peter Blackman. Piccola curiosità: nelle edizioni stampate dal 1983 in poi compare nell'album anche la magnifica rivisitazione del brano "Shipbuilding" scritto da Elvis Costello. Imperdibile!

Evito comunque di addentrarmi in una analisi specifica dei singoli brani (lasciando questa dolce incombenza alle vostre orecchie) perché nel parlarvene sento forte il desiderio di scrutare l'opera nella sua interezza, nella sua insolita, leggera compattezza. "Nothing Can Stop Us" può essere considerato un album positivo, che si lascia ascoltare piacevolmente senza strafare, ma anche senza passare inosservato. È parto non banale di un artista dall'ampio background culturale, eclettico e rivoluzionario nell'anima; merita dunque tutte le attenzioni del caso.

"While we talk I'll hit your head with a nail to make you understand me.....I have something important to say" (da "Grass")

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