Ogni volta che mi avvicino alle musiche di questo disco rimango spesso coinvolto in una sensazione di dormiveglia, come se stessi vivendo un "incubo quieto". Ed è proprio con questo ossimoro che mi permetto di iniziare a descrivere le atmosfere di un disco che arriva tardi nella carriera Di Wyatt (1997), ma in questi casi si può anche dire meglio tardi che mai. Perchè pur essendo distante nel tempo dalle sue prestazioni più acclamate (con i Soft machine, il progetto personale Matching Mole, e poi i dischi solisti: "The End of an ear", "Rock Bottom", "Ruth is stranger than Richard", tutti consigliatissimi), Shleep è un disco speciale, affascinante, maturo, a mio parere il suo migliore insieme a Rock Bottom, pur avendo un'importanza storica indubbiamente minore.

C'è una sorta di programma personale dietro a quest'opera, ed è quello di voler rappresentare musicalmente e tramite la poesia della sua voce gli incubi notturni che nei due anni precedenti avevano spesso tolto il sonno a alle notti dell'artista Britannico (una specie di malattia, forse retaggio del suo uso smodato di drgohe psichedeliche nei tempi andati). Da qui la necessità di forgiare la parola inedita shleep, che sintetizza questo carattere di insonnia disturbata, nella fonetica, simile all'inglese sleep, ma con una pronuncia differente. Sono delle sottili parabole molte delle canzoni che si susseguono nel disco, quasi delle improvvisazioni a tema, che sembrano non dover terminare, ma danno punti di riferimento nella timbrica degli strumenti, più che in una struttura dilatata in cui non si distinguono bridge, strofe o ritornelli. Proprio il timbro è il punto di ricerca di Wyatt in questo disco, ogni canzone è unica in quanto dominata da timbri forti e spesso caldi che la contraddistinguono univocamente. Così accade nell'apertura "Heaps of Sheeps" (quella che si avvicina più di tutte nel disco alla forma canzone forse), in cui la caratteristica è un suono influenzato da Brian Eno (che è appunto presente nel pezzo, suonando i sinth), tra tastiere finemente modulate e una matrice ritmica chitarristica trascinante. Altrove invece è il cupo trombone di Annie Whitehead a determinare il sound del pezzo insieme a quella voce da liturgia sacra che Wyatt utilizza sia su tonalità alte che basse, spesso intrecciandole tra loro in più tracce vocali.

Il gioiello di nome "Maryan" (scritta insieme al chitarrista Philip Catherine) è invece contrassegnato a fuoco dal timbro del violino, che ondeggia al di sopra di una ballata intima che sprigiona pura poesia nella melodia della voce, trasportata da un continuo ma placido arpeggio di Chitarra acustica e dalla ritmica felpata del contrabbasso. Per me una delle più belle canzoni mai ascoltate, mi ricorda il movimento ed il profumo del mare (sarà anche per via del testo). Accanto al quieto vivere velato di malinconia di pezzi come questo o "Free will and testament" si situano poi degli interventi più nervosi nelle armonie, con dissonanze ("The duchess", una filastrocca disturbata da dissonanze incontrollate di matrice free jazz), o ritmi incerti, in cui "il dormiveglia" si fa più sconnesso e conturbato, come in "Was a friend", scritta insieme al fido bassista Hugh Hopper, in "September the ninth" o in "Alien", nelle cui liriche cupe si scontrano più voci lontane, ed il cui testo è significativo (riporto le prime due strofe): 

I sleep on the wing
Above the rainclouds
Blown by the wind (no roots on earth)
No ground below (no ground below)
Just ruins (timeless)
Dandelion clocks (drifting)
Am I from Venus? (higher, higher)

No ocean bed, no west-wind drift
No desert sand, land or sea
No world below, blown by the wind (limbless) (homeless)
Not human
Lost in longing (lost in longing)
Never belonging (never belonging)
Am I from Venus? (higher, higher, higher)

La peculiarità di Wyatt è quella di utilizzare disparate tipologie di strumenti e sonorità (con una particolare predilezione per trombe e tromboni e sonorità jazz) con una perizia ed una coscienza senza pari, un autentico compositore fuori da ogni genere e classificazione univoca, impegnato a dare un senso particolare ad ogni strumento, un significato ad ogni timbro (persino nell'utilizzo delle percussioni). Ed allo stesso modo si serve dei (pregevoli) musicisti di cui si circonda, utilizzando la loro personalità al fine di completare la canzone. Ed è per questo che mentre su una canzone come "Maryan" c'è Philip Catherine, invece su un pezzo dal significato totalmente differente come "Alien" alla chitarra troviamo Phil Manzanera (che ha messo a disposizione i suoi studi per registrare il disco), con la sua elettrica satura ed allusiva. A non creare discontinuità tra tutte queste sonorità differenti è proprio lo stile compositivo di Wyatt, riconoscibilissimo, quella specie di "stream of consciousness" Joyciano applicato alla musica, una continua riflessione sul sogno e sul suo significato, alla ricerca di una solitudine (e qui voglio anche sottolineare la coerenza che traspare tra la musica e la vita stessa dell'autore, eternamente silenziosa e appartata) che suggerisca tranquillità, piuttosto che turbamento. Ed alla fine "Shleep" sembrerebbe propendere di più per la prima, se non fosse per il finale "The whole point of no return" che ci giunge insospettabilmente breve e oscuro, dopo lo humour quasi rap-blues di "Blues in Bob Minor", a terminare (o forse a lasciare senza una vera fine) un disco senza tempo (davvero la data in cui è stato fatto non influenza nulla, neanche il suono) e che ad ogni ascolto lascia scoprire una nuova parte di sè, lasciandone ben altre sempre in ombra.

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