Molto probabilmente le idee post-dadaiste di Wyatt non erano viste di buon occhio dai membri della band in cui militava, i Soft Machine, forse perché considerate anti-jazz o forse soltanto perché non venivano proprio afferrate dal gruppo… fatto sta che il prosieguo della band senza quell’importante figura si è ben stabilizzato tra i confini del free-jazz, pur non raggiungendo mai quei vertici compositivi che invece erano ben presenti, proprio grazie al piglio di Wyatt, nei loro primi dischi: “Hope for Happiness”, “Why are we sleeping”, “Pataphysical Introduction”, “A Concise British Alphabet”, “Dada Was Here” e la sublime “Moon in June” erano stati tra i migliori episodi di Wyatt con la band e ci avevano già dimostrato che il ragazzo in questione non era solo un abile poli-strumentista e un particolare cantante, ma soprattutto un eccellente compositore, un pensatore libero, un visionario a tutto campo, un maestro della manipolazione musicale, un viaggiatore senza catene. E i Soft Machine gli andavano stretti… o viceversa?
In un’intervista dichiara: “Mi sentivo proprio solo ed escluso. E così decisi di incidere un album per conto mio. Me lo lasciarono fare perché credevano che sarebbe stato tutto sul genere di Moon in June ma io volli andare oltre. Avrebbe dovuto esserci Mongezi Feza ma alla fine lo feci con Elton Dean e Mark Charing; e mio fratello Mark suonò un po’ di pianoforte. Era un assaggio di ciò che potevo fare. E sono contento di essermi concesso qualche parte di piano, cosa che non avrei mai osato fare in pubblico, davanti a persone reali. Un pizzico di follia mi piace, è una delle qualità umane che preferisco. Alla fine, le cose su cui mi ritrovo sempre a lavorare non hanno nulla a che vedere con il rock o il jazz ma piuttosto con strane combinazioni di nastri e voce, più influenzate, semmai, dai Goons [gruppo comico della BBC degli anni ’50 e ’60, specializzato nelle alterazioni vocali].”
Insomma, esigeva spazio… e con questo disco v’è andato oltre.
La musica presente in “The end of an ear” non è etichettabile se non come “free form”, una proposta musicale del "cut up" di Burroughs, al quale si era ispirato anche per il nome della Morbida Macchina. Wyatt manipola i nastri, plasma a proprio piacimento la materia musicale, gioca con sketch, suoni, rumori, singole note, liberi vocalizzi, sembra insomma una versione arcaica di quello che i campionatori avrebbe fatto molti anni dopo, e teoricamente ne può essere considerato uno dei padri.
Potrebbe sembrare solo un azzardato esperimento, ma si rivela più che riuscito: uno straordinario collage sonoro come non se n’erano mai uditi prima, bagnato qua e là da gocce di jazz e psichedelia, che va a porsi come raffinata versione dadaista della "Las Vegas Tango" di Evans ( già definita dallo stesso compositore canadese come “una specie di blues minore di gusto impressionista” ), la cui originaria ossatura jazz viene terribilmente fracassata e rimessa in sesto.
Lo studio delle armonie vocali ricercato da Wyatt si concretizza in un equilibratissimo strumento voce, che però suona pazzo, caotico, quasi apocalittico, alzandosi, abbassandosi, fuggendo via, senza bisogno di costruire un motivo ma semplicemente accarezzandolo. Sempre di contorno, le note del piano pungono a mo’ di frecciate “jazz-horror”, e le percussioni di Wyatt quasi come una pinza vanno a sospenderci in quel vortice caotico e scomposto.
Ma Wyatt è riuscito ad andare ben oltre: se da un lato il suo collage era musicalmente astratto, dall’altro il significato che andava ad assumere era più che concreto: non ha avuto bisogno di parole per comunicarci lo stato d’animo di qualsiasi idealista, quale lui probabilmente era, in quel periodo culla di tanti cambiamenti per l’umanità, andando anzi ad adattare la decomposizione musicale allo sfaldamento morale umano. A dir poco geniale.
"Las Vegas Tango" è tutto questo, nonché “la fine dell’orecchio”, e ben svetta tra i picchi musicali raggiunti nello scorso secolo. Tra le due parti che la compongono (la prima delle quali è il “repeat” della seconda) si collocano le restanti sette tracce, con titoli dedicati agli amici, ed ognuna degna di nota: si passa dalla ritmata marcetta dadaista di “To Mark everywhere” al punzecchiante fischio che convoglia con sax e cornetta nel finale di “To Saintly Bridget”, dagli stralunati rimbalzi gommosi di “To Oz Alien Daevyd and Gilly” al jazz d’avanguardia di “To Nick everyone”, dal macabro organo dell’orecchiabile in “To Caravan and Brother Jim” al decisamente meno cupo piano della spensierata “To Carla, Marsha and Caroline ( For making everything beautifuller )”, non disdegnando particolari sperimentazioni elettroniche al passo con i tempi, se non addirittura in anticipo, come in “To the old world ( Thank you for the use of your body, goodbye )”.
I musicisti impegnati in questo disco sono: Robert Wyatt (batteria, piano, organo, voce), Neville Whitehead (basso), Mark Charig (cornetta), Elton Dean (sassofono), Mark Ellidge (piano), Cyril Ayers (percussioni), David Sinclair (organo).
Tutti amici con cui Wyatt voleva realizzare semplicemente una pazzia di gioventù, e invece s’è ritrovato con un grande capolavoro della musica.
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