Robertina & Gatto Ciliegia vs il Grande Freddo, “Cuore”, Casasonica/Cosmo Dept., 2006
Nel settimo libro della “Repubblica”, Platone, giusto teorico della censura e dello Stato secondo giustizia (rigidamente gerarchico, fondato sull’ascesi filosofica: rigorosamente avversa al culturame da salotto situazionista), fa enunciare a Socrate la dicotomia incomponibile tra ombra e luce.
In questo caso, tra le mille ombre della musica italiana, fanno capolino alcuni sprazzi di luce. Robertina dà voce al Gatto. Un gatto che canta, a questi livelli, è già una notizia: si può dire che siamo quasi fuori dalla caverna. Se poi il gatto attinge a piene mani alla immarcescibile tradizione italica, è evidente che l’operazione muta di segno, integrando non consueti aspetti di rotonda melodia e di levigata sperimentazione.
Siamo di fronte ad un’opera di interpretazione moderatamente avanguardista, mai accademica e tendenzialmente minimalista di 11 standards della tradizione melodica italiana. La fine rilettura che “aggiorna” materiali classici presuppone la oculata scelta di microcosmi sonori, testuali, ipertestuali e metaculturali che hanno orientato la storia della canzone e del costume della nostra povera patria (e non solo): una diacronia caratterizzata anche da tradimenti, come è uso costante presso il popolo dell’8 settembre.
I pezzi, qui sottoposti ad un chirurgico (ma non asettico) restyling sono tutti coevi alla cd. “rivoluzione antropologica”: che, come si è variamente scritto e testimoniato, ha trasformato la stirpe italiana in un coacervo informe di perfetti omologati al mondialismo da età del lupo.
Passiamo ora al “track-by-track”, che alcuni non gradiscono. Non abbiamo capito perché; ciononostante, chiediamo venia, e proseguiamo senza indugio.
“Nessuno” (Capotosti-de Simone) fu interpretata al Festival di Sanremo del 1959 dal duo B. Curtis-W. de Angelis, e poi riproposta da Mina. La resa del Gatto è scolastica, con interessanti, catalettici giri di basso ed effetti stranianti. Di gran gusto europoide l’uso della chitarra baritono. Testo sentimentale, un poco sfaldato: si nota l’intervento femminile. Il meglio deve ancora arrivare, piccola.
Magistrale la reinterpretazione di “Senza Fine”, scritta dal rognoso G. Paoli su ispirazione della amante da boudoir estenuato O. Vanoni, che per prima la interpretò nel 1961 (seguita subito dopo dal compare genovese, che già al tempo appariva rimbambito). La “Ricordi” voleva rilanciare l’immagine della Vanoni, già collusa con ambienti poco commendevoli, declinandola in chiave “sexy”: non si è mai capito se il tentativo ebbe successo, o meglio se fu effettuato seriamente. Traccia fondamentale della canzone italiana, “Senza fine” ha un giro iniziale in mi bemolle che è rispettato con devozione quasi liturgica dal Gatto; non però la sfumatura finale dell’originale, e ciò non pare congruo, come pure la colpevole dimenticanza della fisarmonica, che ereditava gli stilemi classici della transalpina chanson de geste. L’abbiamo presa alla larga, lo riconosciamo. Arrangiamento sognante, lavoro di spazzole sincopato e finissimo, synth e programmazioni sapientemente sottotono; qui il colpo da maestro è comunque l’utilizzo del wurlitzer, stilisticamente inappuntabile e ben coeso col resto delle architetture semantico-sonore. Per inciso, rammentiamo che anche il teppista M. Patton interpretò la traccia, in uno dei suoi tanti momenti di ebetudine stuporosa.
Quasi manichea “Bugiardo e incosciente”, ad opera del degenere P. Limiti, poi riciclatosi come presentatore di carabattole, e dello spagnolo J.M. Serrat, che la cantò per la prima volta nel 1967; interpretata da Mina nel 1969, poi dalla onnipresente Vanoni e dalla fastidiosissima R. Pavone. Notevole la voce filtrata; qui la strumentazione è scheletrica, e la drum machine riesce a stento a divincolarsi tra nugoli di ostacoli ermeneutici; subentra quindi, infine, una batteria disciplinata e lineare. Synth lisergico, quasi catacombale; incomprensibile il breve stacco noise del bridge, mentre il finale “spoken words” ci ricorda l’antico adagio vanitas omnia.
Uno dei due capolavori assoluti del disco è “Il tempo passò” (1962), scritta e cantata dal più grande di tutti: L. Tenco, morto per seppuku in una camera d’albergo a Sanremo (noi non ne siamo certi; tra l’altro, non si è mai capito se fosse una semplice camera, un pied-à-terre o una suite), e si può dire musicalmente riscritta, tradotta e finanche tradita –ma chi potrà mai consegnare senza corrompere?-- da Robertina e il Gatto. Testo da inquieta ma sobria poesia crepuscolare, del tipo Corazzini che ritorna mezzo morto dalle Indie; due versi di Tenco buttati lì demoliscono da soli l’intera produzione di un qualunque de André, risibilmente elaborata a tavolino per le masse sedicenti musicofile. Splendido rimaneggiamento del Gatto, con ancora le spazzole e la sussurrata voce di Robertina in evidenza; tutta effettata, nelle strofe finali la chitarra disegna ghirigori cosmici per minute apocalissi interiori.
Superba la successiva “rendition” di “Cuore” (la Pavone la interpretò per prima nel 1963, dobbiamo ammettere con un certo qual zelo), che dà titolo al lavoro; qui la ritmica iniziale rimonta a certi oscuri vaneggiamenti che promanano da Equatore. Minimalista e quasi marziale la resa, anche se l’ingresso dell’avorio fa emergere un sentore di quieta affabulazione. La “climax” è restituita con gran gusto, quasi mitteleuropeo; vertiginose stratificazioni sublimano l’originale, con il contributo di lap steel e piano reverse. La chiosa è un poco confusionaria, tra riverberi vocali e sferraglianti chitarre à la “My Bloody Valentine”.
Interessante ma non imprescindibile è “Il barattolo”, del 1959, interpretata anche da G. Gaber. Troppe iterazioni e sovraincisioni, ed un utilizzo del kratom synth (non si tratta di un vulcano indonesiano) che lascia perplessi; relativamente banale la resa del solo centrale, a base di una elettrica un poco mitridatizzata, ed alla lunga tediosa. Torna il fil rouge del lavoro, a sancire, quasi pascalianamente, le ragioni del cuore.
“Io che amo solo te” (1962) è un lucidissimo omaggio al gran signore della canzone italiana, l’appartato chanteur di Pola, S. Endrigo. Ovviamente dimenticato –non frequentava i salotti buoni in cui ci si abbevera al verbo di ladri di polli quali Sartre o Moravia--, ma non certo dal Gatto. Sezione ritmica intricatissima e sfuggente, come a rincorrere linee parallele e convergenti al tempo stesso. Tra gli interpreti successivi, ancora la Vanoni a rompere i coglioni, e poi Mina, la Pavone, la cerebrolesa O. Berti, il sublime buffone di corte Jannacci, Baglioni, e due tra le peggiori evacuazioni della canzone italiana di ogni tempo (non solo musicalmente): Nannini e Mannoia, che Iddio ci perdoni per il solo averle nominate in un contesto così erudito e citazionista.
“E poi” (1973) è l’altro chef d’oeuvre dell’album. Geniale l’intreccio e l’integrazione di elettrica, acustica e programmazioni, con il wurlitzer in grande, decantato spolvero. L’arrangiamento sontuoso di P. Presti rese al tempo un successo clamoroso un tema altrimenti indigeribile al popolo, nell’interpretazione di Mina, con il funambolo T. de Piscopo alle percussioni.
Di grande intensità la successiva “Fino all’ultimo minuto”. Quasi ritualistico il refrain, mentre il testo è un manifesto di disincanto: “Fare l’amore, poi/Che senso ha?”. Inutile dire che la traccia fu portata al successo da uno dei più sensibili balordi di ogni tempo, P. Ciampi, nel 1963 (“Piero Litaliano”), prima che fuggisse in Giappone. Nella resa del Gatto, gli strabilianti cori di appoggio sembrano tratteggiare improponibili e quasi futuristiche divagazioni; mentre il fraseggio chitarristico finale è, letteralmente, da antologia.
“Legata a un granello di sabbia” ci porta ad un tema che deve aver influenzato, in qualche modo, certe fughe à la Felt, col sitar indiano (dunque non in contrasto con un certo “sentimento del tragico” di conio indoeuropeo: fato e forma). Il misterico incipit strumentale è un sentito, accorato omaggio al grande N. Fidenco, autore e interprete del seminale brano, nel 1961, poi stuprato senza pietà da G. Morandi. Voce del Gatto qui particolarmente ispirata e distinta.
Chiusura in grande stile con “Ti voglio cullare”, che riprende fin dal titolo l’archetipo immemoriale della culla: mare, utero, casa. Si tratta di una rielaborazione “originale” della precedente traccia. Geniale l’uso dei cori, quasi doo-wop, in una sorta di carillon per cuori infranti. Struggente chiosa, con piccoli sferragliamenti, delicate sirene e telefoni trasognati; chiudono delle tastiere effettate, che sembrano prese a pie’ pari da “Nada” dei DIJ.
L’esistenza umana, spesso, è un guardare le ombre e scambiarle per la realtà.
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