Mi tocca fare il cattivone. E la cosa mi gusta assai. Eccovi pronta, allora, la recensione di un film che bisogna immediatamente smontare, "Il piccolo diavolo", di Sua Maestà Roberto Oscar Benigni. A parte l'atteggiamento altero con cui il toscanaccio gira mezzo mondo col sorriso ghignante e le battute riciclate mille volte, con l'arroganza con cui ci ricorda che ha vinto due Oscar (ma li ha vinti solo lui?), a parte tutto questo, Benigni mi è sempre piaciuto. Non sempre, ma certi spettacoli teatrali ormai impolverati (roba di vent'anni fa) facevano veramente sganasciare.

Certi suoi film li ho amati, da "Johnny Stecchino" (credo sia il suo apice comico, anni e anni di clichet comici rimescolati in quattro e quattr'otto) a "Il Mostro", ma anche più indietro, da quel mitico "Berlinguer ti voglio bene" alle trasferte americane di "Down by law". E ho visto, come tutti, "Il piccolo diavolo".
I fasti di "Non ci resta che piangere" (film non proprio, per così dire, perfetto, ma sostenuto da una comicità prorompente) sono da attribuire più al genio comico di Massimo Troisi che alle bischerate di Benigni, capace persino di rovinare, citandola malamente, la scena cult della dettatura della lettera by Totò e Peppino. E mentre Troisi continua con i suoi grandi film d'autore, spesso divertenti talora ambiziosi, Benigni si dà alla televisione, al teatro (c'è un "Tuttobenigni" da andare a recuperare immediatamente!) e al cinema. Con "Il piccolo diavolo". E fa le cose in grande, chiama dall'America il rugoso Walter Matthau (uno che ha sempre dimostrato vent'anni in più di quelli che effettivamente aveva), arruola Vincenzo Cerami, Evan Lurie per le musiche, Robby Muller alla fotografia e Nino Baragli al montaggio. Accidenti, quanta bella gente!

Eppure, come spesso nel cinema è accaduto, la montagna ha partorito un topolino. E forse, in questo caso, nemmeno quello. La storiellina è esile come una foglia durante l'autunno, divisa brutalmente in due tronconi: l'arrivo del diavoletto Benigni e l'intralcio nella vita del povero prete Matthau, e la partenza per Montecarlo con Nicoletta Braschi (già pesce lesso a quel tempo) diavoletta sexy (bhè insomma, sexy, diciamo attraente). E sia la prima parte sia la seconda fanno ridere a singhiozzo. Le battute sono spesso forzate, volgari o riciclate da spettacoli teatrali di qualche anno prima, compresa la solita aria da anticlericale e le scontatissime battute sull'apparato riproduttivo di uomini e donne (chi ha visto o conosce "Televacca", sa che quelle sono battute riciclate), la seconda parte invece è uno strazio, noiosa fino dalle prime battute, svenevole, con quell'aria da fantasticherie felliniane (ballerini che se la spassano con dei pupazzi, i militari che salutano la Braschi appena scesa dal treno) che mettono tristezza, per come vogliono volare alte senza mai, effettivamente, riuscirci. E così, l'unica gag che si salva è quella celebre della sfilata di moda durante la Messa. Ma è troppo poco.

Walter Matthau è spaesato, in un ruolo che non sente suo e in un ambiente che capisce poco: il grande attore amatissimo da Billy Wilder nel ruolo di un prete che si fa prendere in giro dal diavoletto Giuditta Benigni? Che offesa! E l'intesa fra Matthau e Benigni non funziona, i due faticano a trovarsi, non riescono ad esplodere i fuochi d'artificio, perchè troppo frenati l'uno dall'altro. Il Matthau cinico e irriverente di "Non per soldi... ma per denaro" ha sempre la stessa faccia da cane bastonato, non aiutato da una sfilacciatissima sceneggiatura targata Benigni-Cerami che, ad un certo punto, non sa più dove andare a parare, tanto che, divide i due primi attori, per quasi tutta la durata del secondo tempo.
Se Benigni recita anche discretamente, è il suo volere a tutti i costi essere regista a frenarlo, a limitarlo. Non è mai stato un grande regista Benigni, qui poi non imbecca quasi mai i tempi e le gag sono smaccatamente stiracchiate, il Benigni-regista frena senza motivo spesso il Benigni-attore, perchè i tempi del regista non collimano con quelli dell'attore, e se queste due cose non riescono ad intersecarsi, il film, per forza, non riesce a spiccare il volo. E' un pò come una squadra di calcio che vuole vincere le partite senza portiere, senza difesa, con un centrocampo snello e un attaccante che non segna. Impossibile vincere.

Curioso, dunque, che dopo questo film (chissà perchè diventato un cult!) Benigni lavorerà con Fellini in "La voce della luna" (che non è un cult, ma è un grande film). Da uno come Fellini, il Benigni-regista avrebbe dovuto imparare moltissime cose. Non le ha imparate? Pazienza, grandi registi si nasce non si diventa.

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