Quanto si è parlato, in bene e male, di questo film. Nel 1998, sui giornali, leggevo, letteralmente ogni giorno, critiche irrazionalmente entusiaste da una parte e altre davvero terribili dall’altra (alcune anche piene di brutti insulti personali nei confronti di Benigni).
Lo dico subito: questo non è un capolavoro. L’ idea del film, in sé, è splendida. Purtroppo non basta l’idea per valutare un film, o, più in generale, un’opera d’arte.
Il film è, come noto, diviso in due parti. La prima parte la conosciamo tutti, ed è di introduzione alla seconda. Sulla prima parte direi: niente di speciale, ma comunque un lavoro ben fatto, pur nella rozzezza della recitazione e di qualche dialogo. Passiamo alla seconda parte, quella ambientata nel campo di concentramento, che è quella che suscitò, specie in Israele, furiose reazioni – che oggi, purtroppo, sono state dimenticate.
La prima scena incriminata è la scena dell’indovinello da parte del gerarca nazista. Ai fini della sceneggiatura, Benigni deve usare un uomo buono, che nel film è l’unico che gli mantiene viva la speranza. Benigni sembra dire che c’erano anche dei gerarchi buoni (e innocenti … come il suo amico) che non volevano l’Olocausto, ma che, però, dovettero obbedire agli ordini. Basta riflettere un attimo, per capire che davvero troppo fuori dalla realtà. È storicamente vero che non tutti i gerarchi approvarono l’Olocausto, ma è anche vero che nei fatti lo fecero, restando al loro posto, e quindi non c’è bontà in chi non approva ma, alla fin fine, tace su una tragedia. Detto in parole molto semplici, l’amico nazista di Guido è troppo buono per essere un gerarca …
La seconda scena, è quella dello spettacolo comico in cui Benigni “traduce a modo suo” dal tedesco per tenere nascosto al bambino la verità. Questa scena fece infuriare un critico israeliano, che – lo ricordo perfettamente – parlò di “un insulto ad una tragedia umana”. Sottoscrivo.
Questa scena va davvero troppo oltre. L’idea di nascondere ad un bambino quell’orrore, è tanto meravigliosa quanto nobile. Ma in quel dormitorio c’erano anche tanti uomini adulti in preda all’angoscia della morte imminente e che volevano sapere quello che li aspettava, e volevano conoscere la verità. Benigni avrebbe dovuto inventare qualcosa di “normale”, come una bugia e dire al soldato che il bambino doveva andare in bagno, oppure che si era fatto male e quindi aveva bisogno di una medicazione; farlo uscire dal dormitorio, per non fargli sentire la vera traduzione. Un momento di inaudita angoscia è diventato una buffonata.
Ovviamente, se Benigni avesse fatto uno spettacolo comico solo al bambino o a qualche altro amico in preda all’angoscia, per farli sorridere e tirarli su di morale, allora sarebbe stato un altro paio di maniche. Ma i momenti seri e quelli scherzosi non possono essere confusi.
La terza scena è quella del “gioco dello zitto” finale. Anche un mio carissimo amico, che ripugna questo film perché “non si può scherzare su cose del genere”, l’ha definita “una scena davvero commovente”. Non posso che convenire. Questo è un colpo da maestro, che però non può far dimenticare le due cadute precedenti.
Riassumendo: c’era un’idea geniale per fare un film davvero grande, ma serviva un vero sceneggiatore e un vero regista. È tempo di sgonfiare il pallone.
Una nota su Benigni attore. In alcuni punti è, come al solito, un attore trascurabile, mancante di tecnica. Ma nella scena in cui cerca sua moglie, e quando insegue il camion, poco prima di essere ucciso, recita con la naturalezza di un grande attore, e la sua voce sembra quella di uno dei nostri migliori doppiatori. Non me l’aspettavo. Ovviamente, da qui all’Oscar ce ne passa.
Carico i commenti... con calma