Il nucleo unificatore di quella complessa e variegata esperienza cinematografica che prese il nome di Neorealismo va individuato nell'esigenza, avvertita dai registi e gli intellettuali dell'immediato dopoguerra, di rompere la cartapesta della fumosa retorica fascista per entrate a contatto con la realtà così com'è.
"Roma città aperta", il primo capolavoro e il primo film-simbolo del neorealismo, reca nelle sue immagini questa esigenza, immediata e quasi insopprimibile. La sincerità è il valore che Rossellini, mosso da una spinta morale prima ancora che artistica, sente finalmente di dover introdurre nell'universo futile e stereotipato del cinema italiano.
Com'è noto, "Roma città aperta" fu girato con mezzi di fortuna e in condizioni disagevoli, in una città che ancora recava i segni devastanti dell'occupazione nazista. Alla sceneggiatura collaborarono fra gli altri Sergio Amidei e Federico Fellini. Lo spunto di partenza, basato sulla vicenda reale del sacerdote partigiano don Luigi Morosini, venne progressivamente ampliato inglobando una pluralità di storie che finirono per comporre un ritratto corale della città sottoposta all'occupazione. I protagonisti dell'affresco sono Pina (Anna Magnani), una popolana fidanzata con il tipografo Francesco (Francesco Grandjacquet); Manfredi (Marcello Pagliero), un ingegnere comunista ricercato dai nazisti; don Pietro (Aldo Fabrizi), il parroco del quartiere che protegge e aiuta i partigiani. Contro la rete dei resistenti si muove il maggiore Bergmann (Harry Feist) della Gestapo, aiutato fra gli altri dall'ex amante di Manfredi, Marina (Maria Michi).
L'accoglienza italiana fu sostanzialmente fredda, almeno finché - nel 1946 - l'opera di Rossellini non vinse il festival di Cannes riscuotendo pareri entusiastici in tutto il mondo, Hollywood in primis ("La storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta", disse Otto Preminger). La fortunata stagione neorealista era appena cominciata. Visconti e De Sica avevano già dato contributi di una certa rilevanza, ma nulla che potesse eguagliare la portata rivoluzionaria del capolavoro di Rossellini, il suo rifiuto netto e marcato - così parve allora - di ogni stereotipo cinematografico imperante.
In realtà Rossellini - che aveva agito più sulla base dell'istinto che di una consapevole elaborazione culturale - non aveva ancora sviluppato fino in fondo quelle premesse di realismo che altre opere successive (anche dello stesso Rossellini) avrebbero portato a conseguenze più compiute.
Se uno dei canoni tipicamente attribuiti al neorealismo consiste nel rifiuto degli attori professionisti in favore di dilettanti "presi dalla strada", "Roma città aperta" non rinuncia alle interpretazioni (assolutamente eccezionali) di due divi popolari come Anna Magnani e Aldo Fabrizio. La stessa struttura del film appare non poco debitrice di forme narrative classiche come il melodramma verista e, addirittura, la farsa e l'avanspettacolo (la padellata in testa data da Fabrizio al vecchietto che si rifiuta di fingersi morto!), come assai tradizionali sono la colonna sonora enfatica di Renzo Rossellini, la divisione manichea dei personaggi, lo stile retorico e letterario di certi dialoghi.
Nonostante questo, Rossellini rivoluzionò il cinema iniettandovi la realtà come nessun'altro - né i francesi né i sovietici né tantomeno gli americani - aveva mai osato fare. Senza giudicare, semplicemente osservando. Davanti alla macchina da presa compaiono per la prima volta la situazione misera e squallida dei ceti popolari, il degrado operato dalla guerra e dall'occupazione tedesca, le brutture e le abiezioni della vita in generale, tutto ciò che il fascismo per anni aveva cercato di tenere nascosto dietro la facciata della sua retorica muscolare e magniloquente.
Ad unificare il magma composito e multiforme di un film che, non scordiamolo, è ancora in parte un'opera di passaggio, c'è una lucida e coerente concezione di fondo. Spesso la realtà registrata da Rossellini assume tinte di una crudeltà atroce, che toglie il fiato, eppure il suo sguardo resta carico di pietà e di comprensione per gli uomini che soffrono. Questo approccio cristiano-stoico è evidente soprattutto nelle scene delle morti, che le sono fra le punte più alte del film e del cinema italiano: quella di Pina, crivellata per strada dai colpi dei militari, è entrata nell'immaginario collettivo; quella di don Pietro, fucilato dalla Gestapo sotto gli occhi dei ragazzini della parrocchia, è se possibile ancora più bella e straziante.
Implacabile ma compassionevole, Rossellini guarda la realtà in faccia così com'è, senza abbellirne gli orrori ma anche senza rinunciare alla speranza. "Roma città aperta" è pervaso da un cupo senso di tragedia, eppure non è un film pessimista: lo illuminano la solidarietà sincera e cristiana del popolo che resiste; il coraggio eroico di chi, come Manfredi e don Pietro, si sacrifica per la libertà; la fiducia riposta nei bambini che, forse, costruiranno un futuro migliore.
L'invito alla sincerità e l'implicito messaggio di speranza sono stati forse il lascito più prezioso che "Roma città aperta" ha consegnato al nascente movimento neorealista, e al cinema italiano tout court.
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