"Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi". (Pier Paolo Pasolini, 14 novembre 1974)


"Io so e ho le prove". (Roberto Saviano, 2006)

 

Quando Pasolini scriveva sul Corriere della Sera il suo "Romanzo delle Stragi", atto d'accusa dell'intellighenzia politica accusata di aver insabbiato la verità sui più tragici fatti accaduti in Italia a cavallo degli anni '60 e '70, e insieme appassionata rivendicazione del ruolo dell'intellettuale come libero battitore all'interno della società, svincolato dalla necessità delle prove e per questo più intimamente vicino alla verità, Roberto Saviano non era ancora nato.

Trentadue anni dopo, Saviano ha ventisette anni, ma non è un intellettuale, non è un affermato e riconosciuto pensatore, è semplicemente un giovane e arrabbiato giornalista napoletano, e scrive "Gomorra".

Ma cos'è Gomorra? Gomorra è, per diretta ammissione del suo autore, l'"Io so" dei giorni nostri, un "Io so" istintivo, viscerale e insieme accurato e documentato riguardo ai mali che affliggono Napoli e tutta la Campania. Oltre la retorica della "Bella Napulè", oltre ogni retorica da quattro soldi, oltre pizza, mandolino e mozzarella di bufala, Saviano ci guida con il suo sguardo disilluso, iroso, mai domo, in un viaggio infernale attraverso la Gomorra dei giorni nostri, una terra dove il male non viene da "fuoco e zolfo", ma da droga e cemento. Gomorra è la terra "con più morti ammazzati d'Europa", il territorio "dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere".

La Camorra, o meglio "Il Sistema", come viene comunemente definita dai suoi affiliati, controlla ogni cosa, nel partenopeo. Divisa in clan, famiglie che altro non sono che feroci e sanguinarie organizzazioni d'affari, tiene in pugno ogni attività, legale e non. Commercio, spaccio di droga, import-export di ogni merce, falsificazione di prodotti di moda, produzione degli stessi, estorsione, imprenditoria edilizia, smaltimento dei rifiuti... Non c'è attività su cui il sistema non estenda le suo grinfie. Il Sistema è un'azienda, e insieme qualcosa di più. È un'organizzazione capillare, che fornisce assistenza sociale ai suoi affiliati e alle loro famiglie, che pur non desiderando uno stato diverso da quello attuale, le cui leggi viola continuamente, come dichiarato da un pentito citato da Saviano, si insinua nelle maglie lasse dello stato italiano sostituendosi a esso.

Uomini feroci, spietati, senza scrupoli, ebbri di delirio di onnipotenza e brama di potere, nascosti dietro soprannomi truci e spiazzanti ("Sandokan", "Ciruzzo ‘o Milionario", "Cicciotto ‘e Mezzanotte", "‘O Lupo"...) muovono le pedine di una guerra che dal 1979, anno di nascita di Saviano, ha lasciato sull'asfalto quasi quattromila morti ammazzati.

Roberto Saviano ci dice tutto questo, ma non si limita a darci prove indiziarie, oggettive, atti giudiziari e documenti processuali, ci da qualcosa di più, qualcosa di più raro, autentico e profondo. Ci da sé stesso. Perché Roberto Saviano non è un paladino della giustizia, non è un eroe, o almeno non voleva esserlo, è semplicemente un ragazzo profondamente indignato, sofferente, e curioso. Sì, curioso, affamato di verità, desideroso di trovare da sé le risposte alla domanda che tutti i giovani nella sua condizione si pongono: perché un giovane nato in Campania non ha gli stessi diritti, la stessa considerazione che avrebbe se fosse nato in qualunque altra zona d'Europa o d'Italia?

Cosa ha avvelenato il cuore della sua terra, ancora più delle migliaia di tonnellate di rifiuti tossici in essa sepolte?

La risposta che pare emergere dalle pagine di Gomorra è: la fame. La fame di successo, potere, la brama di dominio, sconsiderata e folle, di pochi, che trascinandosi dietro molti, si scontrano, si distruggono, e insieme schiacciano ogni  componente, anche la più estranea e neutrale a loro, della società. Questo è Gomorra, un "viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra", un reportage condotto con gli strumenti del giornalismo autentico, quello fatto sul campo, e insieme con l'anima, con la passione di un giovane che, da solo e principalmente per sé stesso, si immerge nel marcio della vita, tra discariche e bagni di sangue, per riemergerne infine spossato, distrutto, ma cosciente. Cosciente della realtà, dell'iperuranio criminale che tutto muove in terra di camorra, del sangue e dei soldi che sono i costituenti primi di ogni ogni pietra, di ogni muro intorno a lui; cosciente dei fatti, delle motivazioni, delle persone e dei loro pensieri.

Pasolini sapeva perché immaginava, e l'immaginazione di un uomo acculturato, informato, di viva intelligenza e pronta capacità di stabilire connessioni non si discosta mai molto dalla verità. Pasolini sapeva perché era un romanziere, era in grado di scrivere un romanzo sulla verità. Saviano sa perché ha visto. Più potente, incisiva, caustica e bruciante della speculazione a buon segno, c'è solo la chiarezza abbagliante della verità che passa per i propri occhi. Autopsis. Saviano ha compiuto il suo viaggio infernale, ne è riemerso sporco, puzzolente, sudato e sconvolto, non è uscito "a riveder le stelle" ma è sfuggito a nuoto dalla sua cayenna privata, condivisa con migliaia di suoi pari senza futuro, novello Papillon, per sua stessa ammissione, aggrappato a un rottame, ma potendo gridare: "maledetti bastardi, sono ancora vivo!".

Saviano sa, voleva sapere per continuare a sentirsi vivo, uomo davvero, non morto servo del sistema, che colpisce anche chi ne è estraneo. Cresciuto in terra di camorra, tra morti ammazzati e rifiuti, tra amici e conoscenti a vario titolo collusi con il sistema e felice di esserlo, dove un padre ti ricorda che se anche hai una laurea senza una pistola non sei nessuno, con la forza della sua volontà Saviano è sopravvissuto per spedirci la sua testimonianza, per condividere con noi i suoi pensieri più intimi.

E ora, "Noi Sappiamo".

Carico i commenti...  con calma