Quanto mi diverto a fare il tappabuchi! Anche questo album manca nelle opere recensite di Vecchioni. E ho scorto altre assenze eccellenti… Peccato!

Al di là di spiritose e innocenti battute sul personaggio in questione che si generano (alla fine chi se ne frega, son fatti suoi o no..!?), io guardo alla ciccia, odo ciò che l’insistente puntina incanalata nel danzante LP sul giradischi, legge ed emette dagli altoparlanti e con sobrietà e passione mi rimetto in gioco a porre alla Vostra spettabile visione, cari DeBaseriani amanti e non del cantautorame nostrano d’annata, il mio punto di vista, vivisezionando un’altra creatura del Professore.

Con questo lavoro datato 1985, Vecchioni sembra essersi definitivamente messo alle spalle le angosce e il senso di confusione interiore, caratterizzati dalla sua turbolenta vita sentimentale negli anni ‘70 e inizia a convivere più serenamente con se stesso, grazie sopratutto alla sua nuova compagna Daria e alla sua matura presa di posizione, sulla concezione dell’amore, che domina quasi tutto il disco. Ne fan veci “La mia ragazza” dedicata alla sua donna e “Piccolo amore” nelle quali il sempiterno arcaico sentimento, è vissuto come quotidianità e non più come idilliaca filosofia. “La mia ragazza è il mio mestiere” è il modo per dimostrare che Daria è la nuova musa ispiratrice della sua idea poetica. Anche l’anziano soldato francese Gaston, rimembra dolorosamente l’amore con un compagno italiano di Crociata, nella riflessiva e travagliata “Millenovantanove”, a mio avviso vero diamante di tutto il disco, in cui si scava nel profondo tormento causato dall'assenza dell'amato e si evidenzia il contrasto amore odio “Se dormo sogno di sfidarti sempre e farti un buco proprio dentro al cuore, farti sertire il senso di questo inutile avere dolore.” Il pezzo precedente “Gaston e Astolfo (La vera storia di)“ che introduce a “Millenovantanove” è cantato in romanesco da Ornella Vanoni che per la terza volta consecutiva e ultima, è ospite in un album di Vecchioni. Lo scoramento invece accompagna “Fata” (seguito ed epilogo de “Il castello” nell’album “Calabuig” del 1978 e identica struttura musicale), che esausta di attendere il suo guerriero, se ne va per sempre dal maniero, ma le ultime strofe tentano di renderle giustizia, scagionandola dalla realtà e traspontandola nell’ennesimo sogno, tema onnipresente nei suoi album. Roberto pare immedesimarsi in questa donna che chiude definitivamente con il passato. Grotteschi e assurdi triangoli amorosi vengono invece menzionati sia nella noiosa “Fratel coniglietto”, che nella goliardica “Livingstone” (titolo in omaggio all’esploratore del diciannovesimo secolo), dove anche in questo caso si ricicla il tema musicale di “Canzone in cerca d‘autore” dell’album precedente “Il grande sogno“. In uno spensierato zapping della beata giovinezza, nella non esaltante title-track, bussa alla porta Laura, personaggio presente nell’immaginario del cantautore, anche in brani di lavori precedenti, inteso probabilmente come suo alter-ego femminile.

“Bei tempi” non offre artisticamente il Vecchioni migliore e non è certo un prodotto intriso di passione e inquietudine (eccezion fatta per "Millenovantanove" e "Fata"), che han dato l’input in periodi precedenti alla creazione di prodotti di più eccellente livello, ma da l’idea di un onesto manufatto dal clima più ingenuo e spensierato. Gli arrangiamenti sono ben curati a mio parere, aggiungerei però per l’ultima volta, almeno in questo decennio. I dischi successivi, come “Ippopotami” e "Milady”, vittime forse di un tentativo da parte di molti cantautori, di stare in quei periodi al passo con i tempi, offriranno a volte in maniera confusionaria, più spazio a tastiere ed elettronica, lasciando non poche perplessità, in chi ha riconosciuto da sempre negli esponenti della canzone d'autore, un marchio artigianale più folk e menestrelliano. Solo negli anni ‘90 si tornerà a riassaggiare melodie, comunque ben elaborate, ma più sincere.

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