Album cruciale della discografia vecchioniana, questo «Ippopotami» (1986) può essere considerato come un “disco di movimento”; si configura infatti come un disco di passaggio, di sperimentazione e di cambiamento, rappresenta un allontanamento dalla tipica produzione di cantautore, dovuto alla quantomai preponderante presenza del produttore Michelangelo Romano.

Un “attimo” rapidissimo della carriera di Vecchioni, un taglio decisamente diverso per un album che si fa forte della “distrazione” di Roberto e del narcisismo intellettuale di Romano, e che ha come risultato un tonfo delle vendite. Ma questo modo più elitario di concepire la canzone (pur non arrivando alla cripticità dei lavori di Battisti e Panella), che Roberto rifiuterà dall’album successivo, interrompendo la collaborazione con Michelangelo, non va letto in chiave negativa: complessivamente, «Ippopotami» rappresenta un’innovazione, ed è, in quanto tale, degno di nota, essendo riuscito a staccarsi dal consueto modo di intendere il lavoro del musicista/poeta.

A completare il triangolo, la performance altrettanto narcisistica di Mauro Paoluzzi, che in veste di arrangiatore si lascia andare a sperimentazioni varie, riuscendo a suonare tutti gli strumenti (ad eccezione dei fiati) e creando così anche lunghe code e introduzioni strumentali, come in “Oltre il giardino”, in cui dà sfogo alla sua vena ninfomane e prova della sua bravura e della sua larga visione complessiva.
Volendo estrapolare un tema principale da questo disco, se si esclude la title–track “Ippopotami”, metafora «dell’uomo moderno nel mondo occidentale», dalle atmosfere notturne emerge la solitudine umana: a cominciare dal protagonista di “Notturno”, che cammina per la strada da solo, mentre altri «tornano a casa aggrappati al volante»; un piccolo capolavoro questo, un talkin’ blues sulla coda della lunga traccia precedente, con una musica che mescola i rumori della giungla di notte ad un testo strettamente metropolitano; per passare al principe francese di “Nel regno di Napoli” (brano–eccezione del disco: è l’unico che sembra ambientato di giorno); per concludere con l’uomo di “Aimez–vous Chopin? (Una serata normale)” e la sterminata solitudine delle gemelle “Così lontani dalla riva” e “E noi le voci e le parole”.

Grande assente è la donna, se si esclude quella spiata dal voyeur in “Indiscreto”; e se ce n’è, si tratta di fugaci apparizioni: «con un poeta non parlare / racconta storie senza uscita / vuole una donna che scompare / la sola musica della sua vita». C’è un ultimo elemento, infine, che rende «Ippopotami» un album atipico; perché, oltre alla collaborazione ai testi di Romano e il sovversivo impiego da parte di Paoluzzi di strumenti elettronici e arrangiamenti classicheggianti/blues, il fan di vecchia data trova un’altra piacevole (o deludente, a seconda dei casi) novità: infatti Roberto canta in napoletano e – per la prima volta – in francese (vedi “Nel regno di Napoli” e “Chiari di luna”); che piaccia o no, la scelta è azzeccata e molto suggestiva; ma, in fin dei conti, non dovrebbe essere questo a far riflettere i fan accaniti di Roberto; al limite, invece, l’ingerenza più o meno incisiva di Michelangelo.

A quelli che preferiscono gli aspetti innovativi di un artista, questo disco è caldamente raccomandato. Altrimenti, dopo tre anni arriva «Milady», per la gioia di tutti i fan del professore.

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