Gli anni 80 del professore milanese si chiudono così, con un disco in bianco e nero. Dalla copertina alle otto canzoni e all'umore che le caratterizza.
"Milady" è un disco dal parto travagliato per via di controversie con lo storico produttore Michelangelo Romano, un disco che risente di un certo peso, quello delle difficoltà, le lontananze, gli anni, le riflessioni davanti allo specchio. E' un disco fortemente malinconico, triste per volere e costrizione assieme. Roberto sta lì davanti a se stesso e probabilmente beve un Cognac accompagnato dal consueto Toscano, si studia nei riflessi, guarda la propria vita e quello che ne fa parte, i figli che crescono e un giorno li accompagnerai a scuola e non saranno più davvero tuoi. Non scopre nulla di nuovo, e lo canta. "Passano gli anni passano, crescono i bimbi crescono" e Vecchioni impara che "il tempo è bellezza". Così, a tarda notte e con un Baileys al posto del Cognac, "Milady" pare davvero essere il suo specchio, fisso alla parete della camera da letto matrimoniale. "Leonard Cohen" è con ogni probabilità una delle sue migliori canzoni d'amore, dove nelle immagini sbiadite riemerge una nostalgica Venezia, "un albergo di quando mi ami, quando i figli non c'erano ancora ed io solo baciavo i tuoi seni". Strade silenziose in cui non possono correre automobili, una laguna verdastra sulle cui acque fredde galleggia il passato. "Ma è soltanto una scusa Venezia, ci saremmo capiti ugualmente".
Passati i 40 Vecchioni canta quella che è la sua compagna, la donna che lo ha scelto, capisce qual è il senso dello stare insieme nella vita, forse capisce anche dove sta l'amore vero. E si racconta nella sua doppia identità, cantautore costantemente in tour da un lato, padre di famiglia dall'altro: la canzone che dà il titolo al disco, "Milady", rappresenta il primo dei due volti cantato con fare rockeggiante che puzza di anni 80 lontano un chilometro mentre il secondo lo si trova in "Certezze", la quale suona a tratti come una filastrocca. Musicalmente non eccelso, specie negli arrangiamenti che paiono uguali in tutte le canzoni, il disco in questione diventa grande per la sua intimità esposta al pubblico, le sfumature grige che lo colorano di tinte malinconiche e di emozioni soffuse, oltre alla consueta vena poetica fra le più alte nella nostra musica. "Gli anni" vede aprirsi la scatola dei ricordi mentre continuano a cadere fogli dal calendario, "Alessandro e il mare" racconta di soldati e d'acqua, passione di sempre, Alessandro così grande fuori e così piccolo dentro mentre ricorda la fontana dei giardini, "Poesia scritta in un bar" nasce quasi per gioco e "Mariù" è forse il tasto più debole.
Chiude "Polo Sud", lunga e triste confessione di chi ha deciso di partire per dimenticare ma poi ha incontrato il nulla, la voce fredda canta una storia gelida prima che ci si dilunghi un po' troppo in fraseggi e coretti. A quasi tre mesi dal trionfo di Sanremo con una canzone senza infamia e senza lode, ascoltando "Milady" si capisce perchè qualche riconoscimento è stato sacrosanto darglielo, seppur nei momenti sbagliati (ci metto anche il Festivalbar di "Voglio una donna").
Nessuno stupore in questo disco, nessun colpo di scena, Vecchioni è quello di sempre. Ma qui un po' di più.
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