Doveva anche arrivare il momento del vecchio Rod the Mod, una delle personalità più eccentriche della musica anni ’70, nonché una di quelle sopravvissute a più di un lustro, e oggi osannate magari da vecchi nostalgici amanti del rock più pop che ci sia, e delle ballads ultraromantiche.

La carriera di Rod Stewart ha conosciuto diversi punti di spaccatura, tra la fase dei Faces, quella primordiale e più genuina, che vedeva la collaborzione sinergica con Ronnie, il quinto Stone, l’ultimo arrivato, il quale conserverà l’amicizia con Rod anche quando sarà impegnato tra gli eccessi della band di Jagger (però ce l’avrei visto Stewart a farci parte, con quel suo stile e carisma, ma i Glimmer Twins erano intoccabili), e la fase solista, che comunque ha fatto fruttare ottimi lavori. Cercando di dimenticare, almeno per un attimo, tutta la produzione ’80 e oltre (con picchi di indicibilità, tranne per poche eccezioni, come la compilation di “If We Fall in Love Tonight”), concentriamoci con l’approdo in USA della star, dopo un lungo viaggio attraverso l’atlantico. “Atlantic Crossing” è l’opera forse di maggior riferimento di Rod, quella che mette in campo quanto precedentemente appreso in terra inglese, mischiandolo con sonorità nuove ed eccelse. È proprio il cantante a sfoggiare nella copertina molto fancy ed eccentrica, la quale dipinge Rod come un superuomo.

Il sound quasi glam, limpido e giovane di questa opera è la cosa che più preferisco, perché va ad accompagnare la voce graffiata e quasi sgolata del Sir, oltre che farci immergere in quegli anni (anche se le sonorità, a mio modesto parere, non sono tra le più tipiche tra la scena del periodo). Rimane il perenne vizio di “rubare” brani qua e là, come era successo da già dal debutto dell’artista. Rod non ama evidentemente riempirci di brani originali, preferisce diluirli, per bene, tra tonnellate di covers, scelta personale, o magari della casa discografica, la Warner. Per quanto questa decisione possa essere rispettabile e rendere il cantante un ottimo interprete, dalla grande presenza scenica, voce iconica, e accompagnato da un comparto strumentale non indifferente, non posso negare che fu un colpo al cuore scoprire, un po’ di tempo fa, durante i primi ascolti alla sua discografia, di quanto genio creativo fosse sperperato e inutilizzato. Perché di pezzi originali, Stewart, ne ha fatti, e sono fantastici, ma vediamo la sua produzione, almeno quella di qualità, composta dal 70% minimo (senza azzardi) da covers. Cinque sono i pezzi infatti originali, su dieci ottimi brani. Che delusione pensare che “I Don’t Want to Talk About It”, che conobbi inizialmente nella versione dell’89, è un brano di Danny White dei Crazy Horses e “This Old Heart of Mine” è firmata Motown per gli Isley Brothers. Ma pensandoci bene cosa importa, Rod prende questi classici della tradizione folkloristica Soul/R&B, e li rende ancora migliori, li trasforma in struggenti ballate per cuori infranti. Se la prima parte del disco infatti è dedicata al rock un po’ più aspro (sempre molto relativamente), definita nel retrocopertina come “fast half”, il secondo lato esordisce con pezzi da sonorità più tonde e dolci (“slow half”).

Da segnalare “Still Love You” tra i suoi pezzi originali, che ci ricorda delle potenzialità dell’artista. Accompagnata dalla chitarra classica, questa dedica è l’apice dell’emozione presente in “Atlantic Crossing”, il punto emotivamente e sentimentalmente più critico, e musicalmente più alto. Per concludere, c’è Sailing, in questa versione che calza a pennello con il main theme del disco, se può averne uno; Rod è pronto a salpare, per arrivare nella terra promessa, quella delle speranze e dei sogni infranti, ma pur sempre, in qualche modo, realizzati.

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