Squadra che vince non si cambia, e Roderick David Stewart, al secolo Rod Stewart, da buon calciatore arrivato a pochi passi dal professionismo, lo sa bene.
Sulla scia della strepitosa tripletta di album inanellata tra il 1970 e il 1972 coi titoli "Gasoline Alley", "Every Picture Tells A Story" e "Never A Dull Moment", in ordine strettamente cronologico, conosce successo e gloria come mai gli era capitato fino a quel momento. Bisogna battere il ferro finchè è caldo, dicono. Ma non sempre le cose vanno come vorremmo: la battaglia tra la Warner Bros. (che detiene i diritti del vocalist con i "Faces") e la Mercury (che vanta quelli dello Stewart solista) per spuntare un contratto esclusivo col cantante ritarda la pubblicazione di "Smiler", che vedrà la luce soltanto nel '74. Ad accompagnare il cantante britannico di nascita ma scozzese nelle vene, al solito, una nutrita schiera di musicisti, per lo più già con Stewart nei precedenti Lp: su tutti l'inseparabile Ron Wood, che di lì a poco sarebbe approdato alla corte dei Rolling Stones. Il disco si riallaccia largamente agli elementi di cui sono intrisi gli album precedenti, "Never A Dull Moment" su tutti: folk, rock, blues, soul e perfino country si fondono divenendo un insieme inscindibile. Anche se...
Anche se stavolta il buon Rod non bissa i risultati precedenti: i musicisti sono i soliti, la voce è quella e le cover sono potenzialmente devastanti, ma manca qualcosa. Innanzitutto gli originali. Rod non è mai stato autore né prolifico né brillante, e in questo caso ce ne da piena conferma: appena tre dei docici pezzi portano la sua firma, due dei quali sono poco più che scarti. A mancare più di tutto è l'atmosfera che impermea i suoi precedenti lavori, la passione, la voglia di gettare il cuore oltre l'ostacolo impreziosendo le canzoni con sangue, sudore, amore e rabbia.
Quello che viene fuori è un Long Playing discreto, ma nettamente al di sotto delle aspettative.
Si comincia col rock'n'roll sfrenato della ChuckBerryana "Sweet Little Rock'n'Roller", primo dei quattro rock che compaiono sull' album, seguito da "Lochinvar", breve intermezzo pianistico scritto e suonato da Pete Sears, che si lega alla ballata "Farewell", scritta da Rod (come anche il titolo successivo), che riporta alla mente (senza bissarli) i fasti di "Maggie May". Il rock di "Sailor" e "Hard Road" è davvero poca cosa; a portare un po di brio è così un ospite d'eccezione quale Elton John, che suona il piano e duetta con Rod nella sua "Let Me Be Your Car".
Stewart ha sempre avuto un notevole feeling soul nel suo canto, e dopo la strepitosa "Twisting The Night Away", epilogo di "Never A Dull Moment", è la volta del buon medley "Bring It On Home To Me/You Send Me", entrambi firmati da Sam Cooke, e della dolce "(You Make Me Feel Like) A Natural Man", rifacimento della celebre "(You Make Me Feel Like) A Natural Woman" scritto da Carole King e portato al successo dall' esplosiva interpretazione di Aretha Franklin. Sul crepuscolo del disco alcune delle canzoni più belle dell'Lp, a cominciare dalla dolce Dixie Toot e proseguendo con due ispirate versioni del classico "Girl From The North Country", ennesimo tributo a Bob Dylan, una delle maggiori fonti di ispirazione di Rod, e di "Mine For Me" scritta dalla coppia McCartney.
Nonostante il successo commerciale (l'album raggiunse addirittura la vetta delle classifiche del Regno Unito), "Smiler" è stato il primo Lp di Rod Stewart ad essere denigrato dalla critica del tempo, ed il primo passo falso del rocker che nel 1974 aveva alle spalle ben 10 anni di carriera: rimarrà il suo ultimo disco a presentare quel (non più) unico mix di generi che ne aveva decretato la fortuna fino a quel momento.
Il lavoro successivo, "Atlantic Crossing", aprirà una nuova stagione all'insegna del pop per Rod, meno ispirata ma ugualmente di enorme successo.
Squadra che vince non si cambia, ma se non scendi in campo con le giuste motivazioni rischi di fare brutte figure.
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