Quali sono i mali che affliggono l’Italia? Le risposte le sentiamo tutte le sere nei talk-show: l’evasione fiscale (con il Nord-Est che evade le tasse come nessun’altra zona del mondo), la criminalità organizzata, il torpore del Sud, i costi eccessivi della politica, le lobby (avvocati e notai su tutte) che impediscono le liberalizzazioni che farebbero fare un importante balzo in avanti all’economia, e, dulcis in fundo, la dittatura dei sindacato che impedisce quella flessibilità del lavoro che è ormai un dato di fatto in tutto il resto del mondo (parlare di “posto fisso” nel mondo anglosassone, è considerato fuori dalla realtà).
Roger Abravanel (un libico naturalizzato italiano, laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano a soli 21 anni) pensa che non siano solo questi i mali che attanagliano il nostro Paese. Come l’autore spiega in questo densissimo saggio di 400 pagine, il principale problema dell’Italia è la mancanza di cultura meritocratica. Il problema è culturale, di mentalità. Per noi, non deve andare avanti chi merita di più; chi si impegna di più e tende all’eccellenza qui è quasi destinato al martirio. L’Italia avrebbe delle potenzialità superiori a quelle di qualunque altra nazione ma non le mette in atto perché ci sono troppe oligarchie (non solo economiche ma anche culturali) a frenare una grande rivoluzione meritocratica. L’Italia: una Ferrari con le ruote sgonfie.
Dopo un interessante excursus storico sulla meritocrazia (introdotta in America nella prima metà del secolo scorso) l’autore passa a descrivere il mondo anglosassone, dove il merito ha acquistato quasi il carattere sacrale di una religione.
L’America ha mille difetti (come Abravanel, senza troppi fronzoli, scrive), ma rimane ancora oggi la terra delle opportunità, perché lì una persona è giudicata per quello che fa e non per quello che è (figlio di un grande imprenditore o di un grande luminare). In Italia non solo abbiamo la Confindustria che detta l’agenda al governo, ma abbiamo anche i giovani industriali, figli degli industriali della Confindustria, che hanno costituito una loro piccola lobby.
In America troviamo una densità di homeless che è il triplo di quella presente in Italia (anche se nel libro non è detto), ma gli Stati Uniti sono uno dei Paesi con la più alta mobilità sociale del mondo. L’America condanna brutalmente ma sa anche generosamente premiare. Ragazzi provenienti da famiglie modeste sono stati accolti ad Harvard per i loro voti scolastici, le loro attività extracurriculari, e alcuni solo per il loro buon carattere (senza avere voti eccellenti). In Italia la mobilità sociale è praticamente nulla: nasci povero, morirai povero.
Abravanel parla anche del grande contributo dato da Tony Blair nella ristrutturazione della pubblica amministrazione inglese. Una ristrutturazione a colpi di meritocrazia. Solo i migliori possono avere cura della cosa più delicata e nobile di un Paese. E per migliori non si intende solo quelli con il più alto quoziente intellettivo (IQ). No, migliori significa anche coloro che, pur avendo un IQ nella norma, mettono i valori morali (su cui Abravanel insiste moltissimo) al primo posto. Un amministratore intellettualmente eccezionale ma ignobile vale meno di un amministratore di intelligenza normale ma guidato dal principio di fare sempre al meglio il proprio lavoro e servire i cittadini nel miglior modo possibile. Intelligenza è un concetto molto più ampio di quel che si pensi.
E l’Italia com’è messa quanto a meritocrazia? Molto male. Il mondo ci ride dietro non solo per i fatti ben noti che coinvolgono la politica romana. Ci ridono dietro anche per la mancanza di vere scelte meritocratiche: nell’amministrazione, nella politica, nell’università (nonostante la grande eccezione della Scuola Normale Superiore di Pisa, descritta con dovizia di particolari nel libro). Generalizzando e banalizzando un pò, siamo un popolo di furbi senza principi che oggi deve prendere lezioni di meritocrazia anche da Paesi dittatoriali come la Cina o Singapore.
Ma a portarci a questo livello c’è stata anche la triste cultura sessantottina. La sinistra, in nome di una falsa attenzione ai più deboli, ha costruito in Italia la “mediocrazia”, la cultura della mediocrità. Non le giuste pari opportunità che ci sono in America; no, qui vige l’“egalitarismo”. Una parola come uguaglianza – sacrosanta quando parliamo di uguaglianza di fronte alla legge – perde ogni valore quando parliamo della vita reale: non esistono (antropologicamente) due persone uguali e, se anche esistessero, chi dà di più deve ricevere di più. Meritocrazia è semplice sinonimo di giustizia.
La nostra speranza è che spariscano (democraticamente) dalla scena il Partito Democratico (brutto cocktail di ex-comunisti ed ex-democristiani) e questa destra lobbista che ha portato l’Italia sull’orlo del baratro. La speranza è nelle persone serie dell’una e dell’altra parte. Il futuro sarà luminoso se si costituiranno due partiti moderati, uno progressista di sinistra e uno conservatore di destra, divisi su alcuni valori, ma concordi nel dire basta alla mediocrità, alla rassegnazione e allo strapotere delle oligarchie (economiche e culturali). È questa la pacifica rivoluzione culturale che cambierà l’Italia.
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