Roland Orzabal rientra nella ristretta cerchia di autori che sono quasi unanimamente definiti geni del pop. E di tale cerchia, complice la personalità schiva e riservata, è fra i meno conosciuti, quindi nessuna sopresa che buona parte di chi è finito su questa pagina non sia nemmeno a conoscenza di un suo lavoro solista.
Benchè l'attività dei Tears For Fears, specie dopo l'abbandono di Curt Smith, sia stata in buona parte opera sua, questo album si presenta ancor più personale in quanto scevro dagli obblighi editoriali della ditta più famosa. Di fatti si accentuano le tendenze musicali già manifestatisi in Raul and Many Kings of Spain, con un definitivo allontanamento dalle consuete atmosfere beatlesiane. La leggenda vuole che in ogni studio di registrazione che si rispetti ci sia un disco dei Tears For Fears, che è lì per dare spunti grazie all'incredibile capacità di assemblaggio dei suoni di Orzabal & Co. In questo Tomcats Screaming Outside il leggendario suono è contaminato da talmente tante influenze da perdere i connotati originali.
L'incipit del disco Ticket To The World, cupa e ipnotica, con le sue sventagliate elettriche, toglie subito ogni speranza a chi si aspettava risvolti pop: l'ascolto richiede orecchie predisposte a muri di suono fatti di rumore, distorsioni ed elettronica. Ticket To The World è una cavalcata in piena new wave, genere dal quale Orzabal ha tante volte attinto, in particolare negli ultimi scampoli degli anni 90. La successiva Low Life segue lo stesso paradigma con qualche concessione ad un cantato più melodico e in primo piano. In Bullets for Brains si fa strada definitivamente il vocione di Orzabal, fra i pochi performer che secondo le opinioni di chi scrive potrebbe cantare qualsiasi canzonetta rimanendo credibile: un irresistibile brano di synth pop, probabilmente l'episodio migliore del disco. For the love of Cain inganna con un inizio folk per poi aprirsi in uno splendido pezzo pop con un refrain di grande respiro, di quelli che hanno reso immortali i brani composti negli anni 80.
Le concessioni all'easy listening finiscono qui. Dalla sesta traccia Orzabal rientra nell'abisso in cui ci aveva condotti all'inizio e non ne si esce più, se non per brevi momenti. Con Under Ether siamo praticamente sul terreno del trip-hop. Dandelion ammicca al Bowie più rockettaro. Hey Andy ha atmosfere quasi Jungle.
La continuità compositiva col precedente album dei Tears For Fears è garantita dalla presenza alla scrittura di metà dei brani di Alan Griffith, benchè esista un abisso di stile rispetto al successivo e deludente disco del ritorno di Smith: Everybody Loves A Happy Ending. I temi dei testi vertono sulle tradizionali problematiche esistenziali, anche se in una chiave meno adolescenziale di quella dei Tears For Fears. Complice la sopraggiunta maturità l'autore estende la sua prosa a tematiche religiose e riflessioni sulle relazioni di coppia. Il tutto senza mai venir meno alla nota vena pessimistica che pervade l'album fino all'ultimo pezzo, chiarissimo già dal titolo: Maybe Our Days Are Numbered.
Non sopporto quando le recensioni parlano del recensore anziché del recensito, ma devo fare un'eccezione. Chi ha letto la manciata di recensioni che ho scritto su debaser in quindici anni sa che preferisco scrivere di dischi non recensiti e che mi entusiasmano. Da fan di Orzabal non sono in grado di dire se questo disco mi entusiasma. E' ben scritto, suonato e cantato, ma manca il genio di cui sopra. Da Orzabal è lecito aspettarsi di meglio e spero che il più volte annunciato disco del ritorno dei Tears For Fears ci restituisca almeno una prova limpida del suo immenso talento.

Carico i commenti...  con calma