Quattro adulti, chiusi in un'elegante appartamento di New York; due coppie dell'alta borghesia che cercano di sistemare i guai provocati dai loro figli. Sembra un film comico, ma non lo è. Sembra una commedia, ma non è affatto una commedia. Sembra anche un film leggero, ma si esce dal cinema con un senso di pesantezza sia nella testa che nello stomaco. Perchè l'ultimo film di Polanski, anche se riesce a farci ridere per tutto il tempo, è un'agghiacciante, spietata, fredda e maniacale riflessione sulla nostra cultura, sul "democratico e libero" mondo occidentale. E anche se vediamo sullo schermo star internazionali (tutti bravi, un Oscar a tutti e quattro) ci sentiamo improvvisamente protagonisti inconsapevoli, attori senza saperlo: è la nostra vita quella che racconta Polanski, sono le nostre ansie, le nostre paure, i nostri bisogni e le nostre ossessioni. E ce n'è per tutti: il fallimento del modello della famiglia tradizionale, l'incomunicabilità fra giovani e adulti, il razzismo più becero e fastidioso, il maschilismo esasperato, la violenza verso gli animali, lo schiavismo della tecnologia che ci fa vivere attaccati a un cellullare, la meschinità del capitalismo occidentale, rappresentata da un uomo d'affari senza scrupoli a cui non interessa se il farmaco da lui commercializzato è dannoso alla salute di chi lo usa.

Si ride, e si ride anche molto. Ma sono risate amare, risate che ci fanno capire come a volte si riesca a ironizzare anche su quelle cose che il politically correct ci obbliga a tenere in silenzio. E sembra strano, ma si scoppia a ridere proprio su questi delicati aspetti, quasi come se il film fosse un Inno alla libertà e al menefreghismo: si ride quando il marito della piagniucolosa Jodie Foster definisce il suo attivismo per i diritti umani come "cazzate per negroni", si ride quando si viene a sapere che il nome del criceto della coppia è "da froci", si ride quando la bravissima Kate Winslet vomita sulle riviste d'arte sparse sul tavolino.

Polanski distrugge ogni convenzione e getta quattro esseri umani in un circolo vizioso che parte come eccessivamente democratico e intriso di fair play, ma che ben presto viene distrutto e capovolto, fino ad arivare, sempre più velocemente, nella più ridicola delle condizioni: ubriachi, stanchi e depressi dalle loro stesse vite.

Scritto a quattro mani insieme a Yasmina Reza (il film è tratto dall'opera teatrale "Il Dio del massacro" della stessa Reza), "Carnage" dimostra la bravura del poliedrico regista polacco nella vivisezione dei sentimenti, delle sensazioni e delle emozioni più profonde della nostra natura. Se fosse durato un quarto d'ora in più, sarebbe stato un perfetto capolavoro, dato che il suo finale lascia un pò tutto in sospeso, troppo in sospeso. Ma d'altronde vedere il film sembra vedere un piccolo documentario su noi stessi, quindi il finale lo conosciamo tutti anche se non viene mostrato.

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