Aprile 2007: appena pochi mesi dopo il suo debutto, Rome torna alla ribalta con un folgorante capitolo secondo a confermare il vigore di un talento fuori dal comune. E già fra i solchi di questo “Confessions d'un Voleur d'Ames” s'intuisce quello che si dimostrerà essere negli anni che verranno il percorso di Jerome Reuter: un'appassionata variazione di un tema principale, quello che potremmo definire il nucleo poetico dell'uomo-artista lussemburghese. La musica patrocinata da Rome è una intensa rilettura dei dettami del folk apocalittico nella sua accezione più tipica, adottato quale veicolo di espressione per i sentimenti e le riflessioni di questo piccolo-grande cantautore.

Come succedeva in “Nera”, Reuter riprende, quasi con noncuranza e senza eccessive velleità di differenziazione stilistica, gli stilemi che sono (arche)tipici del genere, fondando la credibilità del suo prodotto, non tanto sulla sua intrinseca portata innovativa (pari a zero), ma esclusivamente sulla forza delle emozioni e delle fascinose suggestioni estetiche ed estatiche che la sua arte è in grado di suscitare nell'ascoltatore.

Perché siamo nel 2007, in un'epoca ben oltre lo sputtanamento del genere, giunto oramai alla sua seconda/terza generazione di artisti che, a partire dal paradigmatico “Brown Book” di ben venti anni prima, sembrano aver perso qualche cosa per la strada rispetto a quello che era stato seminato dalla vecchia scuola. Non si può quindi certo dire che a Retuer giovi il fatto di cavalcare un'onda che sembra aver esaurito da tempo la sua spinta originaria. Si può invece affermare che il suo puerile appellarsi continuamente all'oracolo della Morte in Giugno provochi una sorta di effetto controproducente nella reale comprensione della portata artistica della sua arte.

Poco importa, Reuter continua per la sua strada, fregiandosi, in verità, di appartenere ad una antica tradizione di folksinger che sembrano avere il loro capostipite nel biblico Leonard Cohen. Ed in questo, effettivamente, è difficile dargli torto, nonostante le pompose orchestrazioni e i campionamenti ereditati direttamente dalla peggior feccia industriale ricollochino il giovinazzo, che gli piaccia o meno, negli angusti recinti della cosiddetta area grigia.

Difficile quindi innalzare Retuer allo status di cantautore; riduttivo, tuttavia, risulta continuare ad ignorare la sua innegabile valenza artistica quale compositore ed interprete di intense ed intime ballate senza tempo.

Rispetto a “Nera”, ben più scarno e ruvido nei suoni, rinveniamo una maggiore cura negli arrangiamenti; un predominio, forse spasmodico, dell'apparato sinfonico ed ambientale, a scapito delle trame acustiche della chitarre, che rimangono tuttavia l'ossatura essenziale delle composizioni.

Tolto questo dettaglio (non da poco, visto che l'album sancisce una crescita ed una maturazione formale, nonché una direzione stilistica più coerente e compatta, che da un lato sa smussare gli eccessi, e dall'altro amplifica gli umori gotici, offuscando il tutto nel quadro di uno sfocato ed irrisolto esistenzialismo), tolto tutto questo, quel che rimane è quindi l'artista Retuer per niente intaccato nella sua integrità di mesto cantore del suo inquieto mondo poetico; un mondo poetico attraversato da un ridondante romanticismo che sembra richiamare la dark-wave più seducente prima ancora che l'immaginario apocalittico, elemento che rimane comunque preponderante.

“L'indifferenza è l'incontrario dell'orgoglio” è la frase che, sia in inglese che in italiano, percorre concettualmente l'opera, appassionata rappresentazione della visione del mondo dell'artista, specchio di un'anima incrinata, ma fermamente avversa alle barbarie di un'era che sembra rinnegare la dignità, l'intelligenza, il senso di responsabilità dell'uomo-individuo innanzi alla decadenza ed alle brutture che lo circondano.

L'inizio in pompa magna di “Ni Dieu ni Maitre” ci consegna un Reuter in preda ad una overdose gotica, ove possenti orchestrazioni franano alle spalle dell'oscuro e sofferto canto baritonale del Nostro. A rimettere tutto a posto è la successiva “The Consolation of Man” che sembra uscir fuori direttamente da “The World that Summer”: trucida ballata scossa dai fremiti di un'elettronica marziale e cacofonica, essa costituisce un vero manifesto d'intenti, nonché il collegamento più diretto con l'arte della Morte in Giugno. Ma a rimarcare il fatto che non ci troviamo semplicemente innanzi ad un piccolo Pearce in cerca d'identità, ma a qualcosa di più, di più profondo e di più vario, basta una coppia di brani come “Querkraft” e “The Torture Detachment”: la prima è il tipico pezzo dark-wave (e vagamente pop – si pensi agli arpeggi che richiamano direttamente i Cure più spensierati) che troviamo in ogni album targato Rome; la seconda un lento abissale che ci consegna il lato più autenticamente malinconico dell'arte di Reuter, che in verità maneggia con abilità ogni genere musicale che possa fungere al servizio dei propri intenti poetici.

La dimostrazione è come il Nostro in struggenti ballate come “The Joy of Stealth” e “Wilde Lager” riesca ad evocare il Tom Waits più crepuscolare senza sfigurare.

Fra gli echi disastrosi ed i sussulti sinfonici di un pianeta devastato dal conflitto bellico, fra i cupi cori gregoriani ed il minaccioso scricchiolare dei carri-armati che avanzano; fra i delicati arpeggi di una chitarra ed le avvolgenti ballate di pianoforte che recuperano una tradizione cantautoriale vecchia come il mondo, la musica di Rome tocca le corde più profonde dell'anima, con semplicità ed ispirazione, scadendo nel puerile a tratti, o nella spudorata citazione in altri, ma mai deludendo in quanto ad impatto emotivo.

Una importante conferma, un passo avanti verso la perfezione.

Buon viaggio, Jerome!

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