Giunto al quarto album in tre anni, Jerome Reuter si conferma il personaggio più credibile dell'odierno panorama neo-folk. Tanto che, dopo l'ottima prova dello scorso anno (il formidabile "Masse Mensch Material"), il giovane lussemburghese non solo non mostra segni di cedimento artistico nonostante la sua furibonda prolificità, bensì rilancia con quello che probabilmente è da ritenere, ad oggi, il suo capolavoro.
L'ombra di Douglas P., a più di vent'anni dalla nascita del genere, rimane lunga ed incombente, eppure Jerome Reuteur è capace di ergere con dignità ed autorevolezza la sua umile testolina. Questo perché negli anni il Nostro ha saputo definire e levigare una propria identità artistica: un nanetto che sì, con "Nera" muoveva i primi passi sorretto dalle forti braccia di Death in June e Der Blutharsch; che sì, con "Confessions d'un Voleur d'Ames" non era ancora in grado di emanciparsi dalle fumose ambientazioni mitteleuropee tipiche del genere; che sì, con "Masse Mensch Material" reiterava, pur con notevoli contaminazioni, stilemi vecchi venti anni; ma che progressivamente ha saputo ancorarsi sempre più massicciamente alle altrettanto forti spalle di giganti quali Leonard Cohen (su tutti), Nick Cave e Tom Waits, fino a compiere la definitiva sterzata intimistica di "Flowers from Exile", il suo album più propriamente cantautoriale. L'album, potremmo aggiungere, della piena maturità.
Forte di una formazione compatta che vede il fondamentale contributo del polistrumentista Patrick Damiani (chitarre, violoncello, basso, batteria e tastiere) e dell'ispirato violinista Nikos Mavridis, Reuter focalizza ulteriormente il suo sguardo, restringe i confini di un melting pot che ha fatto la sua fortuna e fugge da ogni tentazione di eterogeneità stilistica che aveva fino al giorno prima caratterizzato la sua concezione artistica, nel bene o nel male estremamente derivativa.
Spurgato definitivamente dalle asperità industriali (a testimoniare l'arcigno passato troviamo solo le voci campionate che ancora costituiscono un notevole condimento alle scarne ballate di Reuter), questo nuovo lavoro del 2009 si presta alle nostre orecchie come un desolante gioiello di folk-cantautorale che solo a tratti viene posseduto dagli antichi fantasmi pearciani (imprescindibili!). L'ombra di Pearce è lunga ed incombente, si diceva, ma oltre quella splende il pallido sole spagnolo: aperto e chiuso dal malinconico oscillare delle onde del mare, "Flowers from Exile" è un concept album sulla guerra civile spagnola, e trae ispirazione dai diari, dalle memorie e dalle testimonianze dei protagonisti di quegli stessi accadimenti: pretesto, in verità, per inscenare i temi tipici dell'artista, quelli dell'esilio, dello sradicamento esistenziale, della solitudine, fisica ed intellettuale.
Sofferta ode ai valori spezzati di un'Europa fotografata al suo tramonto da un'anima inquieta ("The Record is for you, our partners in grief", compagni nel dolore, recita la dedica che Reuter rivolge ai suoi fan), i fiori inviati dall'esilio dal giovane artista narrano e testimoniano una cruenta lotta interiore, volta alla difesa della propria integrità in un mondo cannibale ed invertebrato dove carne e nervi vengono dilaniati, ma che dietro alla carne ed ai nervi continua a battere un cuore, a vegetare un'umanità incrinata e passionale. La strada si tinge quindi dei colori della terra arsa dal sole, ma anche del sangue e delle lacrime che solcano l'intera epopea artistica di Reuter.
Il marchio del Nostro è evidente fin dai primi istanti dell'album, fin quando una voce arrochita e lontana recita versi in spagnolo (l'intro "To a Generation of Destroyers"): cambia lo scenario, il disperato canto di Reuter si anima di suggestioni latine, ma la vena poetica, desolante e profondamente tragica, è la medesima di sempre. Non che non vi sia spazio per significative novità: ma i fraseggi di chitarra shoegaze/post-rock dell'incalzante opener "The Accidents of Gesture", le chitarre flamencheggianti di "The Secrets of Sons of Europe", l'incedere dark-wave della imponente "A Legacy of Unrest" passano quasi inosservati: elementi fagocitati dall'assoluto rigore di un percorso che si snoda attraverso intense gemme acustiche e vari intermezzi, a loro volta raggruppati in quattro sezioni che scandiscono un concept tematico coerente e limpido nel suo incedere (coerenza che riscontriamo anche a livello iconografico, sfogliando il booklet costellato da suggestive foto d'epoca).
Più che in passato, a predominare sono la chitarra e la voce profonda e baritonale di Reuter (sorta di gotico Waits, di Cohen sull'orlo della putrefazione, di Cave derelitto e sfibrato): il notevole lavoro dei due compari completa e leviga un cammino che, ineccepibile da un punto di vista formale, con semplicità e senza scadere in auto-indulgenza il cantautore percorre sostanzialmente da solo, a braccetto, tutt'al più, con i suoi fantasmi, a tratti citando il repertorio dell'inarrivabile Cohen (si pensi alla title-track), a tratti sfiorando la solennità e il piglio drammatico che sono tipici del folk apocalittico: un percorso che tuttavia è letto attraverso la lente di un artista che finalmente è in grado di svincolarsi dai cliché ereditati dal genere, non inventando alcunché di nuovo, guardando piuttosto al passato, ma sempre affermando la solidità di una identità artistica oramai innegabile.
Cento di questi album, Jerome!
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