Nuova uscita per l'inarrestabile Gerome Reuter, sette volte papà dal 2006 ad oggi se si considerano solo i full-lenght, dodici volte se si contano anche singoli e mini, mica male no?

Ma come già detto in altre occasioni, quando si parla dei Rome, la quantità non è inversamente proporzionale alla qualità, e così anche l'anno 2012 viene marchiato a sangue e fuoco da una nuova release del buon lussemburghese, che premia la breve attesa, puntuale come un orologio svizzero.

Anticipato dal mini-album “Fester”, rilasciato a settembre, “Hell Money” è la nuova fatica discografica targata Rome: non una uscita come le altre, dato che questo lavoro ha avuto l'arduo compito di dare un seguito ad un'opera immensa, insuperabile (per mole, ricerca, impegno, messaggio ed ispirazione) quale era stata “Die Aesthetik der Herrschaftsfreiheit” dello scorso anno, un triplo album che certo ha rappresentato un passo importante per la carriera del giovane musicista.

Torna quindi Gerome Reuter, nuovamente da solo, confermando dietro al mixer l'amico Duke Baudhuin e perseguendo la scelta di curare nella più assoluta autonomia scrittura, arrangiamenti ed esecuzione dell'intero album. Torna Reuter, e non delude (nemmeno questa volta, nonostante l'immorale prolificità), anche se per la prima volta nella sua carriera si può parlare di fase di assestamento. Dopo lo sforzo sovrumano che il lavoro precedente gli deve essere costato, Reuter preferisce adagiarsi sul confortevole manto di una dimensione più intima, sulla falsa riga dei lavori della maturità cantautoriale quali erano stati “Flowers from Exile” e “Nos Chants Perdus”, album che avevano reciso definitivamente i già labili legami con il folk apocalittico.

Ma “Hell Money” ci serve anche delle piccole novità.

Anzitutto la musica, che da sempre si fa portatrice di suggestioni mutuate dal passato, pulsanti visioni e scenari tipici della “vecchia Europa” (anche se, dopo l'album “spagnolo” - “Flowers from Exile” - e l'album “francese” - “Nos Chants Perdus”, “Die Aesthetik...” aveva assunto una connotazione universale), oggi trova un maggiore radicamento nell'attualità. La copertina un po' pacchiana, che ritrae un corvo in catene (che potrebbe campeggiare benissimo in un album gothic/metal qualunque) e il titolo apparentemente banale, sicuramente il meno poetico mai adottato nel corso della sua carriera, sono la cruda esplicitazione di quelli che saranno i temi trattati nell'album, ossia le aberrazioni del sistema economico capitalistico e i suoi effetti sulla psiche e sulla società umana: è la sempiterna lotta di Reuter, la solitaria crociata di Reuter, che parte da lontano per arrivare finalmente ai nostri giorni, un corollario necessario dopo l'intensa ricerca storiografica da cui erano originate le ultime opere, appendice inevitabile che si palesa in un attacco frontale all'establishment, non più criticato indirettamente attraverso gli orrori della storia, ma questa volta affrontato a mani nude. Con un album crudo, diretto, spogliato sia della sovrastrutture industriali adottate in passato che dell'eleganza degli arrangiamenti curati dall'ex produttore Patrick Damiani, ormai assente fin dal lavoro precedente. Come l'autore stesso definisce la sua ultima creatura, “Hell Money” è “un tour-de-force emotivo attraverso i logorii interiori di un individuo tormentato, un viaggio nel cuore della tristezza, dove l’avidità, la dipendenza e l’auto-immolazione hanno preso il controllo sulla salute mentale.” Un album duro, si diceva, secco, privo di orpelli, ridotto all'essenza: una voce, una chitarra, poco altro.

Secondariamente “Hell Money”, in assoluta coerenza con il concept, ma forse inconsciamente, è anche l'album più “americano” dei Rome: perché infatti non criticare il capitalismo partendo dal luogo in cui esso ha assunto la sua forma più abnorme? E non è un caso che nel retro-copertina campeggi in bella mostra una frase dell'americanissimo William S. Burroughs, ossia:

Communication must become total and conscious

before we can stop it

Only those who can leave behind

everithing they ever can leave behind in

can hope to escape”

Il disprezzo dell'esistente, il desiderio di fuga, la difficoltà/necessità di emancipazione tramite l'impegno civile ed individuale, tramite l'arte, tramite una ricerca interiore che porti alla riscoperta della proprio dignità di Uomo: in definitiva le peculiarità di sempre del Reuter-pensiero, che in “Hell Money” trovano espressione nella malinconia senza conforto di dieci ballate acustiche (+ intro e intermezzo), dieci confessioni che questa volta lasciano da parte la Morte in Giugno e si arricchiscono di nuovi umori, più americani mi sento di affermare (almeno a livello di sonorità, dato che ciò non è riscontrabile a livello di testi). E così “Hell Money”, al netto della cifra stilistica, inconfondibile, del suo autore, pare sospeso fra epica springsteeaniana ed ossessioni mutuate dal corrosivo mondo swansiano, a metà strada quindi fra lo Springsteen passionale, catalizzatore di anime, generatore di un sogno collettivo, e il Gira nichilista, truce cantore dell'alienazione, belva psicotica divoratore di umane e terrene speranze: Springsteen e Gira, non a caso due eroi, differenti e per certi versi agli antipodi, dell'”America dotata di spirito critico”. E se non mi credete, ascoltatevi il singolo “Fester”, dove gli arpeggi di chitarra e l'effettistica che fa loro da contorno cavalcano ossessivi, freddi, paranoici, dove la voce parte vibrante, suadente, per esplodere in un ritornello allucinato, epico, un baccanale di cowboy sclerati che non guasterebbe all'interno dell'ultimo parto discografico dei Cigni (che sedici anni fa, non a caso, rilasciavano “Greed” e “Holy Money”).

Ma si parla pur sempre di sfumature, perché l'identità Rome rimane intatta, forte e riconoscibile, e questo “Hell Money”, nei suoi quarantatre minuti di durata, non deluderà certamente i fan del progetto. Anche se nel complesso è rinvenibile un generico calo di tensione, senza contare poi un aleggiante senso di deja-vu che in certi momenti si fa più pesante che in passato. Rimane tuttavia la consapevolezza che pezzi come “This Silver Coil” e “Rough Magic” rimangano dei veri colpi da maestro, decisamente non alla portata di tutti (dentro e fuori l'universo della musica dark), palesando un'ulteriore crescita di Reuter sia come autore che come interprete, la cui voce – uno strumento sempre più raffinato – finisce per raggiungere picchi di rinnovata intensità, allontanando ulteriormente la sensibilità di Reuter dagli schemi più tipici del folk apocalittico, genere con cui il Nostro oggi ha veramente poco con cui spartire, se non il mood decadente e le infuocate tesi anti-sistemiche.

Un Reuter quindi totalmente consacrato al cantautorato, sebbene determinati passaggi (l'intro “Tangier Fix”, l'intermezzo “Among the Wild Boys”) e qualche dettaglio disseminato qua e là ci riportino a tratti alle ombre industriali del passato, non del tutto sopite, ma comunque ampiamente ridimensionate. Emerge inoltre una inedita componente psicotica nell'impostazione dissonante di certe soluzioni, certi stop & go che vivacizzano l'ascolto, come accade nella catastrofica “Amsterdam, the Clearing”, che pur non rinunciando alla veste acustica, si candida al titolo di pezzo più movimento del lotto (da manuale il suo falso finale, e la ripartenza a sorpresa densa di una tragica monumentalità degna dei Neurosis, quelli acustici ovviamente). Il resto sono le consuete ballate di Reuter, a volte dei gioielli (“Tighrope Walker”, di evidente marca caveiana), ma che purtroppo non sempre riescono a fare centro (le scialbe “Silverstream” e “Golden Boy”), e che talvolta amano indugiare in un minimalismo eccessivamente autolesionista (il banjo scordato e la sola voce in “Pornero”, palese tributo all'estro di Tom Waits, da sempre fonte di ispirazione del Nostro; o il desolante pianoforte di “Red-Bait”, contaminata da campionamenti e voci nel sottofondo, come succedeva ai bei vecchi tempi). Peccato infine che, volgendo alla sua conclusione, l'album tenda un poco a sgonfiarsi, a perdere d'intensità: senza capire come e perché, si arriva così un tantino stanchi al traguardo dell'ultimo sofferto atto, l'interlocutoria “Deamon Me (Come Clean)”, rasserenante nelle melodie quanto densa di cinismo e rassegnazione nelle sue liriche.

C'è quindi un po' di amarezza al termine dell'ascolto, come se a quest'album mancasse un quid, o forse è un effetto voluto: è il processo di immedesimazione che l'autore ha compiuto immergendosi nella mente deviata del “cittadino della civiltà capitalistica” che però a tratti stona con l'intenso lirismo del Reuter eroe romantico, fragile menestrello, umile testimone delle afflizioni del nostro tempo. Fatto sta che “Hell Money” lascia dietro di sé un senso di angoscia, come se l'autore ponesse l'ascoltatore – solo – davanti ad uno sconfortante vicolo cieco (forse uno specchio?), senza che questa volta sia lasciata una crepa da cui si possa intravedere una speranza.

Chip chop chip chop, the last one is dead”

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