"Nera", uscito nel 2006 per Cold Meat Industry, è il primo full-lenght di Rome, creatura artistica del belga Jerome Reuter, nuova sensazione del folk apocalittico.

Copertina e titolo sono eloquenti nel richiamare immaginari tanto cari alla scena e tanto discussi ed avversati al di fuori della stessa; la musica, dal canto suo, richiama innegabilmente entità come Death in June e Der Blutharsch.

La domanda sorge spontanea: siamo nel 2006, c'era n'era davvero bisogno? E a questo punto potrei raccontarvi le solite palle, che il monicker Rome non ha niente a che fare con la città capitolina ma è il diminutivo di Jerome, o che le fonti di maggiore ispirazione, a detta del diretto interessato, debbono essere rinvenute piuttosto nella produzione artistica dei vari Leonard Cohen, Nick Cave e Tom Waits (influenze che in realtà troveremo con maggiore evidenza nei lavori successivi).

Quel che conta, in verità, è che ascoltando Rome non si ha l'impressione di trovarsi innanzi ad una bieca operazione di riciclaggio o allo strepitare guerrafondaio dell'imbecille di turno.

Si sente che, a livello sostanziale, Rome è fatto di una pasta diversa. L'essenza della sua musica, al di là delle discutibili (presunte od effettive che siano) scelte ideologiche, è quella di uno struggente cantautorato in cui gli scenari di distruzione bellica, i tragici eventi che hanno lacerato a storia del novecento, costituiscono uno sfondo volto ad acuire la tensione emotiva che questa musica intende suscitare, nelle parole come nelle melodie.

Come da copione, intense ballate folk si alternano a cupi episodi industriali e solenni interludi sinfonici, il tutto amalgamato dal talento melodico di Reuter, che evita accuratamente le asperità che spesso il genere richiede.

Una profonda e sofferta voce si staglia al di sopra di tutto, lasciando dietro sé la musica come una lontana cacofonia: un mondo sfocato ed inafferrabile che fa da sfondo, che sporca, che contamina la visione poetica di un eroe romantico che sprofonda, insieme al mondo stesso, in un vortice di caos e futilità (da notare, a tal riguardo, l'uso massiccio di loop industriali e campionamenti chiamati continuamente ad insudiciare la dimensione melodica tratteggiata a pesanti pennellate dagli arrangiamenti acustici).

L'armamentario impiegato in "Nera" è quindi una tavolozza con pochi colori. La mano dell'artista, già ferma e precisa, dipinge tuttavia con incisività un paesaggio stilizzato e in penombra raffigurante i drammi che sconvolgono la storia dell'uomo: fatti e suggestioni che tornano in realtà ad essere lo specchio in cui si riflettono i dolori dell'anima; un sussurro, una voce, che si perde nel fragore degli spari e degli edifici che crollano.

L'album si apre con l'inevitabile introduzione atmosferica. A destarci è il clamore delle sirene anti-raid aereo e il passo marziale delle percussioni, chiamate a disegnare i movimenti sbilenchi di un brano ("A Burden of Flowers") che suonerebbe vagamente Tom Waits, se non fosse per la voce lacrimevole che lo affossa fin dalle prime note.

In "Reversion" fa già capolino quell'attitudine "pop" che occuperà spazi crescenti nei lavori successivi, ma in "Nera" si respira ancora forte il tanfo della polvere da sparo e delle rovine che essa provoca.

"A la Faveur de la Nuit", per esempio, è una ballata di pianoforte di una tristezza indicibile, dove le parole di Jerome sono coperte dall'angosciante abbaiare dei cani: latrati che squarciano la poesia del pezzo, come la follia e la ferocia di un mondo insensato appaiano terribili e grottesche innanzi agli occhi di un bambino.

"Das Unbedingte" devasta per la sua semplicità. L'arpeggio più elementare del mondo reiterato all'infinito, poche strofe, anch'esse ripetute con sofferta autorevolezza: questo è il folk apocalittico, questa è la musica di Rome, tanto essenziale quanto coinvolgente.

Si scende così lentamente lungo i crepacci di un mondo vuoto di speranza e pregno di dolore. E mentre grida e voci campionate sono l'eco di una realtà caotica e fastidiosa, la voce sofferta di Reuter tesse canti di passione e solitudine degni dei grandi nomi del genere, con una enfasi, però, che lo rende unico anche all'interno del genere stesso: egualmente lontano dal proverbiale disincanto di Pearce come dal fiero bellicismo di Albin Julius, Reuter si rende artefice di una musica pregna di pathos e romanticismo, stucchevole a tratti, ma sempre e comunque sincera. Così accade in "Beasts of Prey", altra arcigna ballata. Così accade in "Hope Dies Painless", animata da un giro di pianoforte che suona tanto Death in June da ricordarci quanto nell'arte di Pearce sia presente tutto, o quasi, il folk apocalittico.

Le due componenti, quella folk e quella industriale, sono complementari, anche se a convincere maggiormente è il Reuter cantautore piuttosto che il Reuter che gioca a fare Der Blutharsch. Ed è certo un bene che con il tempo la musica di Rome riuscirà ad affrancarsi sempre di più da certe ambientazioni per abbracciare una dimensione intima e sempre più personale, volta a sondare le asprezze e le fratture di un'anima fragile e gentile.

"Nera" è forse schematico e prevedibile nel suo incedere; scolastico nel rispettare pedissequamente i cliché del genere. Tuttavia, è in grado di emanare un fascino innegabile, a cui è difficile resistere, a prescindere dai gusti musicali.

Non è un caso che Rome, solo dopo due anni (e ben tre album!, senza contare gli EP), sarà a merito da annoverare fra i pochi nomi che ancora oggi sono in grado di tenere alta la bandiera del folk apocalittico!

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