Quinto album in cinque anni di attività: qualsiasi artista, oggi giorno, avrebbe dei seri problemi a reggere ritmi di questo tipo, eppure Jerome Reuter resiste, resiste alla grande, assestando l'ennesimo colpo vincente della sua carriera. Consegnandoci forse il suo capolavoro.

Rome cresce, scolpisce con scalpelli sempre più raffinati la sua materia emotiva per donarci quello che è il suo lavoro più intimo e personale. Una frase che potrebbe essere, in verità, ripetuta in occasione di ogni sua uscita, se paragonata a quella precedente: il percorso di affrancamento dagli stilemi del folk apocalittico prosegue imperterrito, ma questa volta non si può nemmeno parlare di fuga spericolata verso il plagio dei grandi nomi del cantautorato più classico. E così il fantasma di Douglas Pearce, pur sempre aleggiante in “Flowers from Exile”, viene definitivamente esorcizzato e scacciato in cantina, chiuso in una cassa con serratura a doppia mandata. Ma anche a Leonard Cohen, punto di riferimento essenziale per comprendere l'arte di Rome, è stata data una sonora (affettuosa, reverenziale) pacca sulla spalla, con l'intimazione di avviarsi gentilmente altrove: le “canzoni perdute” di Rome sono quanto di più personale e definito sia scaturito negli anni dalla penna di Reuter, tanto che risulta oramai improprio accostare la sua musica a quella di altri autori.

Più che altro “Nos Chants Perdus” è il trionfo di Patrick Damiani, fine ed accorto produttore, polistrumentista ed arrangiatore, ormai colonna portante del Rome sound, di cui Reuter non sembra più poter fare a meno: Damiani conferisce al nuovo album una fascinosa atmosfera, fumosa e notturna, che sembra voler avvicinare il progetto al noir-cabaret dei nostrani Spiritual Front, divenuti i capo-fila di un movimento di giovani folkettari apocalittici intenti ad aprire nuove vie ad un genere che oggi, più che mai, pare vivacchiare grazie alle bolse gesta dei suoi storici tutori, e a quelle miserabili di una folta schiera di fautori del più becero immobilismo stilistico. Certo, il salto che i romani hanno saputo fare nello spazio di un EP (lo split con gli Ordo Rosarius Equilibrio) e di un album (il superlativo “Armageddon Gigolò”), Rome lo compie nell'arco di un EP e di ben cinque album, come se per l'artista lussemburghese fosse mancato l'ardire di affrancarsi dagli insegnamenti dell'imprescindibile Pearce, o semplicemente il tempo e la calma per meditare sul possibile percorso da intraprendere: un album all'anno, in effetti, non lascia molto spazio alle riflessioni, ma anche questo aspetto è del tutto coerente con l'attitudine di un artista solitario ed indefesso che intende dare sfogo alle proprie emozioni, senza curarsi troppo del significato che i suoi prodotti possono avere per una scena musicale. Sta male, del resto, lamentarsi di un uomo che ha saputo mettere se stesso in ogni sua singola creazione.

Lo stesso “Flowers from Exile”, che pareva essere l'esplorazione finale del potenziale artistico della band, ha a mio parere palesato qua e là qualche punto di cedimento: con “Nos Chants Purdus” si ovvia anche a quei cali di tensione e creatività che avevano caratterizzato il comunque ottimo predecessore; anzi, proprio da lì si riparte, e “Nos Chants Perdus” non fa altro che proseguire per la medesima via, una via fatta di struggenti ed intime ballate (a volte anche incalzanti) che voltano definitivamente le spalle ai campionamenti industriali, all'elettronica e perfino agli ultimi rigurgiti “romantic-wave” che avevano caratterizzato fin dagli esordi il folk apocalittico del Nostro. E se “Flowers from Exile” era stato l'album della luce (un lavoro bagnato dalle onde del Mediterraneo e riscaldato dal rovente sole della Spagna), “Nos Chants Perdus” è l'album del buio: il buio di una notte calda, avvolgente, che non vuole incutere timore né angoscia, bensì custodire i segreti più reconditi dell'anima, per fungere infine da luogo riparato e sicuro per potersi francamente guardare allo specchio e dialogare con se stessi.

Reuter è oramai divenuto una sorta di eroe hemingwayano, un eroe senza patria, un uomo dedito alla causa, non importa dove, non importa con chi, non importa contro chi. E' commovente la dedizione di Reuter alla sua causa, e come nella letteratura di Hemingway è nelle situazioni critiche (la guerra, per esempio) che sorge fuori il carattere e la natura più profonda dell'uomo, Reuter combatte la sua guerra con la convinzione, la passione, la disperazione che lo contraddistinguono in ogni suo gesto, ben sapendo che tutto è precario e caduco.

Nella sua durata contenuta (la tipica quarantina di minuti), l'album inanella una serie di gioielli che ci consegnano un Reuter in splendida forma, e come sempre capita in Rome, fatta eccezione dell'atmosferica introduzione, l'opera ama sfoderare in apertura la sua arma più temibile: “Les Deracines” (badate: nonostante i titoli in francese, i brani sono cantati in inglese) dimostra in tutto il suo splendore la maturità cantautoriale di Reuter, la sua raggiunta padronanza nel giocarsi la partita finalmente al di fuori degli schemi della più tipica ballata apocalittica. Struggente nel suo incedere, la canzone fa emergere un Reuter finalmente in grado di sostenersi sulle proprie (forti) gambe, una canzone bellissima, vagamente pop da quanto orecchiabile, dal ritornello dalla cadenza vagamente (o detto vagamente!) beatlesiana: una canzone che brilla non solo per la stupenda interpretazione di Reuter (da brividi il suo rassegnato ed affaticato, greve e spossato canto tenorile), ma anche per un talento melodico oramai peculiare e inconfondibile. “Nos Chants Perdus” è il “Murder Ballads” di Reuter che, beninteso, non inventa niente, ma che sa ritagliarsi uno spazio di tutto rispetto nel panorama dell'odierno cantautorato, alla pari di un Will Oldham o di un Matt Elliott.

La formula continua a basarsi sull'essenziale binomio voce/chitarra acustica, una impalcatura ammorbidita dai rassicuranti arrangiamenti di Damiani (soffice il suo basso, vellutato il suo violoncello, carezzevoli le sue percussioni), abile nell'orchestrare gli sparuti interventi degli altri musicisti ed impeccabile nel modellare suoni caldi e riverberati. A guidare l'ascolto, una schema diviso in cinque capitoli, dove solo a tratti (come da copione) Reuter lascia il campo a brevi intermezzi ambientali, spesso costellati da sentite voci narranti.

E se l'atmosfera non manca, di certo è la sostanza dell'album, i singoli brani, a decretarne il valore. Come non citare la splendida “L'Assasin”, cupa e affossante marcia di una interiorità violata e frammentata, sostenuta dal sofferto canto di Reuter e da un intenso crescendo di archi. Come non citare il trittico (di sublime intensità caveiana!) composto da “Les Iles Noires”, “Un Adieu a la Folie” e “La Rose et la Noche”? La prima imponente ed apocalittica (indubbiamente il brano più tipicamente Rome), la seconda buia e profonda come la notte, la terza animata da una vigorosa fisarmonica dal forte retrogusto gitano: perché, si diceva, Reuter è oramai un eroe senza patria, e proprio nel finale dell'album, il suo cammino sembra addolcirsi, avviandosi verso dei lidi dell'anima maggiormente soleggiatati, areati e ricchi di colori, contaminati da strumenti perfino esotici, berimbau, campanelli, percussioni etniche, chitarre spagnoleggianti (la pesante eredità di un album come “Flowers from Exile”).

L'anima di Reuter è grande quanto il mondo intero, forte di tutte le sue bellezze, turbata da tutte le sue afflizioni. Forse è proprio l'irrequietudine il motore di questa straordinaria prolificità, come se il Nostro non sapesse starsene fermo, immobile, ma fosse costretto, per sua natura, in una perenne tensione, placabile solo con l'infausto confronto con se stessi, con la prossima cruenta lotta, con il prossimo bellissimo album.

Per chi suona la campana? La campana suona per te.

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