Il Blues è ricco di grandi e immortali maestri: Robert Johnson, Buddy Guy, Stevie Ray Vaughan, Albert King, Albert Collins, BB King, Muddy Waters, Duane Allman, Ray Charles, Eric Clapton, Robert Cray..

Devo andare avanti?

Willie Dixon, Jimi Hendrix, John Lee Hooker, Gary Moore, Johnny Winter, T-Bone Walker..

Andate avanti voi.

E' infinita la schiera dei pilastri portanti del genere a cui si aggiunge anche un certo Lonnie Brooks, padre proprio del musicista in questione, Ronnie Baker Brooks, che inizia già da bambino a suonare la chitarra e a esibirsi con la band del padre in adolescenza, dal 1986 in avanti, arrivando a suonare da solo nel 1992, a New Orleans, davanti a niente poco di meno che Albert King, suo grande idolo, da cui riceverà validi apprezzamenti che lo convinceranno a camminare sulla strada del blues con le proprie gambe.

Nel 1998 tenta il grande salto, pubblicando il suo primo album "Golddigger", un concentrato di blues della miglior scuola, misto a rock, soul, venature country e R&B, o "Power Blues" come lui ama definirlo, che lo porta presto a diventare un'icona nel circuito dei Club di Chicago e uno dei più promettenti talenti addirittura su scala mondiale.

Ronnie si vede "predestinato" a portare avanti la tradizione del padre e dei grandi suoi predecessori, imparata a dovere la lezione, forte di uno stile chitarristico di notevole inventiva, tocco caldo e preciso, la sua mano segue come un'ombra la voce dall'anima profonda come quella di ogni bluesman che si rispetti, apre le danze e si consegna al grande pubblico con "She's a Goldigger", intro d'atmosfera e subito la chitarra inizia a danzare in un assolo continuo, che segue le sfumature di una linea vocale accattivante, con un ottimo supporto della batteria calibrata alla perfezione in potenza e dolcezza da un'ottimo J. C. Tucker, accompagnato dal basso pulsante di Carlton Armstrong.

Passando dall'infuocato soul/rock di "Turn A Bad Into A Positive", dove la chitarra risponde nota su nota alla voce, sembra quasi che si parlino in un fraseggio continuo, l'atmosfera si placa un po' nel successivo classico tempo shuffle blues di "Baby Please (Come Back Home)", dove iniziano a far capolino anche le tastiere di Steve Nixon, anche se è sempre la sei corde di Ronnie a farla da padrona.

Segue la morbida e soave ballad "Where Do I Stand In Line", accompagnata da cori soul/gospel femminili, dove i nostri danno prova di avere piena padronanza degli strumenti anche in ambienti "soft". Si riparte con il groove trascinante di "Love Rebound", doppia voce, inserzioni di fiati, gran lavoro alle pelli, ma soprattutto al charleston, di J. C. Tucker. Si prosegue nel segno del blues più viscerale con "Stuck On Stupid", in cui Ronnie fa danzare la sua chitarra strizzando un po' l'occhio a colui che dettò nuove, infuocate regole sull'uso dello strumento.

Dopo aver presentato a dovere tutte le qualità dei musicisti con gli episodi precedenti, la fusione risulta pressoché perfetta in "You Make Me Feel So Good", mentre da segnalare il (sempre ottimo) lavoro di Tucker in "Make These Blues Survive", la maestria e la scioltezza che dimostra in questo classico rock/blues a velocità sostenuta (e ve lo dice uno che ha provato insistentemente, ma tralasciamo i risultati, l'approccio alla batteria partendo proprio da basi blues: per suonare pezzi del genere devi avere veramente i contro attributi).

Il piedino continua a battere nervosamente il tempo anche nella successiva "Must've Been Bought", ma soprattutto in "Bad-headed Woman", dove, anche avendo a che fare con la tecnica slide, Ronnie non scherza affatto.

Ancora sussulti con "Cry Baby Cry", prima della chiusura in relax affidata alla splendida acustica e voce "I'll See You Again".

Grandissimo esordio, un disco blues come Dio comanda.

Un Artista da scoprire.

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