Roots Manuva è uno tosto.

Una delle punte di diamante del nuovo hip-hop inglese, uno che fa il suo sporco mestiere in maniera suprema senza la sovraesposizione mediatica dei vari 'Streets' o 'Dizzee Rascal'. Avvicinabile come stile tanto al riottoso grime quanto a certe crew più classiche dell’hip-hop made in UK (primi su tutti gli storici Stereo Mc's), pubblica il suo secondo disco "Awfully deep" per Big Dada, una casa discografica che è un'istituzione del panorama hip-hop alternativo.

E questo suo lavoro ha tutte le carte in regola per divenire una pietra miliare del genere (e non solo). Lo standard qualitativo è altissimo per tutto il disco: dall’iniziale enfasi di "Mind 2 emotion" in cui il pastoso rapping del nostro fa bella mostra di sé svelando anche qualche sfumatura raggamuffin, alla conclusiva cupa e megadistorta "Toothbrush". Il suono è pulitissimo e si nota in pezzi come "Colossal insight" (primo singolo estratto) punteggiata da un beat acido e fastidioso, o nella pigra e sincopata "Too cold". Vetta suprema di questo disco è però "A haunting": una specie di ragga-blues che si snoda ipnotica tra percussioni e fiati in lontananza.
Ancora una volta è ben presente il substrato giamaicano genetico e culturale di "Roots"; mentre nella successiva "Rebel heart" si fa sentire l'influenza drum'n'bass nella stratificazione di suoni tipica dell'incontro/scontro tra rap ed elettronica avvenuto nella seconda metà dei novanta nel Regno Unito (i primi a venirmi in mente sono gli APC).

Ma tutti i pezzi sono più che notevoli (anche quelli più vicini al divertissement come la breve ma suadente "Pause 4 cause") e confermano Mr. Manuva come uno degli artisti più dotati e più intelligenti della black music tutta del nuovo millennio.

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