Ho sempre ritenuto Rory Gallagher uno dei chitarristi più sottovalutati della Storia del Rock. Spesso parlando con persone che, comunque, sono fruitori dei miei stessi generi musicali, nessuno di loro conosce il talento della sei corde irlandese. E quando mi chiedono chi è Rory Gallagher rispondo sempre raccontando l'aneddoto (vero o presunto) nel quale chiedono a Jimi Hendrix come ci si sentisse ad essere il miglior chitarrista del mondo. La risposta di Hendrix è eloquente: "Non so, dovresti chiedere a Rory Gallagher". Personalmente ho conosciuto Gallagher grazie proprio a DeBaser e in particolare a Trix che mi fece ascoltare "Wonder Who" e "Who's That Coming" (presente nell'album) e da li nacque l'amore per questo chitarrista irlandese (e sarò sempre grato a Trix).

"Tattoo" è il quarto album in studio di Rory Gallagher, che aveva ormai intrapreso la carriera solistica dopo l'esperienza con i Taste, un power trio sullo stile dei grandi super-gruppi come Cream e la Jimi Hendrix Experience. Il disco sussegue i buoni successi dell'ottimo "Deuce" del 1971 e di "Blueprint" del 1973 (lo stesso anno di pubblicazione di "Tattoo"). Il disco viene prodotto con la collaborazione di musicisti eccellenti, quali Gerry McAvoy al basso, Lou Martini alle tastiere e Rod de'Ath alla batteria.

Se i primi album di Rory Gallagher sono prettamente improntati verso il blues, lo stesso non può dirsi di "Tattoo", nel quale il gruppo e lo stesso Gallagher preferiscono spaziare nei vari ambiti musicali, quasi a testimonianza del fatto che l'album dovesse contenere la summa del bagaglio tecnico-musicale del blues man europeo. Ed ecco quindo come si presentano le 9 canzoni (due ne saranno aggiunte nell'edizione rimasterizzata del 2000: la country acustica "Tucson, Arizona" e il folle boogie-woogie di "Just A Little Bit"): ad aprire l'album c'è il classico blues rock di "Tatto'd Lady", nella quale non manca mai, però, quella punta di malinconia un po' tipica dello stile di Gallagher. Sullo stesso stile si mantengono "Admit It" e "Sleep On A Clothes-Line", nelle quali Rory Gallagher sciorina talento musicale e assolo mozzafiato a ripetizione, in assoluta scioltezza. Le prime "novità" sono rappresentate da "Cradle Rock" e da "They Don't Make Them Like You Anymore": la prima è un energico Hard Rock che sfiora il primo Heavy Metal. Una "pesantezza" del genere ancora non s'era riscontrata negli album di Rory Gallagher. Pesantezza che è sinonimo di energia. Nella seconda, invece, il gruppo prova ad addentrarsi nei territori del jazz, con ottimi risultati. C'è anche spazio per il blues più classico, puro e duro, come nell'acustica "20:20 Vision" e nella già citata "Who's That Coming", con tanto di riff in slide con la chitarra resofonica (o comunemente detta Dobro).

Menzione a parte, invece, merita (a mio parere) la canzone migliore dell'album e sicuramente una delle "ballad" più emozionanti della storia del Rock: "A Million Miles Away". La malinconia prende il sopravvento in un bar d'hotel dove c'è tanta gente che si diverte, beve e ascolta la musica del pianoforte. Tutto ciò non mi tocca perché vorrei essere distante un milione di miglia da quel luogo e durante l'assolo comincia un viaggio onirico, estraniazione della mente dal corpo e dal luogo dove mi trovo. E quando finisce l'assolo, ci accorgiamo che il viaggio è stato lungo, tanto che il bar si è svuotato, il pianista se n'è andato a casa e il barista è così stanco che s'è addormentato in un angolo, ma perché io mi trovi qui, ancora non lo so. Vorrei soltanto essere lontano un milione di miglia da qui.

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