Saint Maud è l’ultimo horror della A24, la casa di distribuzione americana ormai famosa per essere associata a film come Midosmmar, Hereditary, The Lighthouse, che hanno contribuito a cambiare l’estetica dell’horror contemporaneo e a spingerlo verso circuiti più alti di quelli tradizionali

Saint Maud, scritto e diretto da Rose Glass, regista inglese al suo esordio al lungometraggio, parla dell’omonima Maud, una ragazza che lavora come infermiera a domicilio e ha un sogno, o meglio un’ossessione: quella di diventare una santa. Recentemente convertita al cattolicesimo, Maud manifesta tutti i segni di quella fede ossessiva ed esaltata che è propria dei neofiti o degli appartenenti alle sette religiose, cosa che già dall’inizio non fa ben sperare. Quando viene assegnata all’assistenza di Amanda, ex ballerina e coreografa ora malata terminale di cancro, dopo aver conosciuto la donna, che se non atea non è certo una fervente religiosa, decide che la missione che Dio le ha affidato è quella di salvare l’anima della sua assistita prima del trapasso, e quindi di fare un’opera di conversione.

La missione di Maud ha poco a che fare con la carità cristiana, alla ragazza della salvezza dell’anima di Amanda interessa ben poco, essendo più preoccupata di portare a termine la missione per dimostrare a Dio che è degna della sua fiducia e che può affidarle compiti più importanti che assistere anziani e malati. Infatti, Maud, nella sua esaltazione, è convinta che Dio abbia in serbo grandi progetti per lei, e sta aspettando solo il momento che lui decida di condividerli anche con lei. Nel frattempo, però, Maud è speranzosa, perché sente la presenza di Dio, nel suo stesso corpo: nei momenti di estasi mistica, sente come una vibrazione che la percorre tutta, come se lui fosse dentro di lei (neanche troppo velata metafora sessuale), finché il suo corpo non si abbandona completamente a lui. Se Dio non c’è, è Maud a cercarlo, attraverso atti di masochismo, come bruciature, tagli e ferite che si infligge sulla pelle.

Amanda sembra prima assecondarla, e Maud crede che il suo operato stia proseguendo sulla strada giusta, ma è solo un’illusione, perché, durante la festa di compleanno organizzata dalla donna, a causa di un incidente, Maud viene allontanata dalla casa ed è quindi costretta a lasciare incompiuta la sua missione.

Per la ragazza questo è un momento di grave crisi spirituale, grazie al quale possiamo vederla nella sua vita ‘laica’ e dare un’occhiata a quella che era la sua vita prima della conversione. Anche senza vederlo, non è difficile immaginare che la ragazza abbia vissuto un trauma che ha causato l’avvicinamento alla religione, in un modo così ossessivo e conturbante. Senza la presenza di Dio, Maud è sola, e la sua solitudine è ora più visibile e palpabile di prima, e la porta a cercare ulteriormente, ad ogni costo, la sua presenza, chiedendogli, supplicandolo, di dirle che cosa fare.

Maud sente davvero la sua voce, e noi spettatori con lei: la voce di Dio, chiaramente fuori campo, si esprime con parole pronunciate in una lingua sconosciuta, è una voce cupa, cavernosa, angosciante. E’ davvero Dio che le sta parlando? Maud comprende le sue parole senza bisogno di sottotitoli, ma, come un oracolo dell’antica Grecia, le sue parole, anche una volta tradotte, rimangono per noi oscure: le dicono che sa quello che deve fare, lasciando aperta la porta all’ingombrante ospite dell’interpretazione. Maud, però – il cui vero nome, in realtà, è Katie – sembra capire subito qual è il messaggio, e cos’è quello che deve fare.

La stessa Maud/Katie è, anche esteticamente, molto ambigua: le sue pupille nere, dilatate, sembrano quelle di un vampiro o di un’altra creatura sovrannaturale, rimandando anche alla possessione demoniaca; lo sguardo esaltato e i movimenti a volte compulsivi, accompagnanti al suo aspetto dimesso, invece, testimoniano di come Maud sia una ragazza sola, emarginata, tendente alla follia, di cui l’ossessione religiosa è il modo in cui viene esplicitata.

Eppure la vediamo davvero levitare da terra, librandosi al centro del suo squallido monolocale, e sentiamo con lei la voce extracorporea che le parla davanti al crocifisso, espedienti che contribuiscono a mettere in discussione, nell’ottica del film, la teoria materialista e razionale secondo cui sarebbe piuttosto semplice, altrimenti, imputare le azioni di Maud a motivazioni di natura psicologica. Certo, queste stesse scene potrebbero essere allo stesso tempo interpretabili nell’ottica di una proiezione della stessa Maud, che crede di sentire una voce e di levitare.

Non è possibile, in fin dei conti, trovare un’interpretazione univoca a quella che è l’esperienza narrata dal film, che si colloca in un’intersezione di misticismo, possessione demoniaca e follia, e ciò che collega queste tre aree è proprio la centralità del corpo di Maud, espressione di un mistero, di una forza propulsoria che resta sconosciuta e misteriosa, ma di cui questo si fa portavoce in tutta la sua potenza. Non è un caso, tra l’altro, che Amanda, la donna assistita da Maud, sia proprio una ballerina e, nei filmati che riguarda, il suo corpo si muova in coreografie che esprimono quella stessa volontà di relazionarsi con l’altro e con lo spazio circostante, che Maud cerca nell’unione con Dio, ma che la danza, come disciplina che vede il corpo come elemento centrale, ricerca in forme terrene e laiche. E’ un desiderio di uscire fuori dal proprio stesso corpo che si può esprimere però solo attraverso il corpo stesso, metafora della stessa condizione umana e terrena.

Saint Maud si ricollega così ad una lunga tradizione di body horror che trovano nel corpo femminile il miglior protagonista, ma anche alle vite delle mistiche e delle sante, prima fra tutte Giovanna D’Arco. La commistione di religioso e demoniaco comporta un’accettazione dei cliché del genere, che vedono la figura femminile allo stesso tempo come vittima e carnefice, in un’eterna dicotomia che contribuisce a sublimarla e a rendere la donna una creatura terribile e mostruosa, nonostante questa volta lo sguardo dietro la camera sia quello femminile della sua regista, che cerca di creare un personaggio nuovo e non stereotipato.

Il film non ha nulla da invidiare ai sopracitati predecessori, mantenendosi sullo stesso livello anche sul livello estetico, con immagini raffinate che seducono e intrigano l’occhio dello spettatore più che realmente spaventarlo. Ed infatti, non è certo il terrore l’effetto ricercato e prodotto da Saint Maud, che più che un horror, è un thriller psicologico tutto imperniato sul personaggio principale, su cui è mutuato il punto di vista, e questo, forse, è anche la chiave per capire come tutto quello che vediamo, con l’unica eccezione dell’immagine finale, sia quello che vede Maud, e adottando il suo punto di vista Rose Glass vuole forse contribuire a metterci nei panni di qualcun'altra, guardando il mondo con i suoi occhi, giusto o folle che sia.

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