Ci ha provato da solista anche Ross Jennings, controverso vocalist degli Haken. Dico controverso semplicemente perché la sua voce suscita molte perplessità. Mi è sempre sembrata (e non credo di essere l’unico) il punto debole ma perdonabile di quella band incredibile che sono gli Haken, appare priva di mordente, a volte un po’ dolciastra, intonata sì ma poco incisiva, ripetitiva e monocorde, il compitino ben fatto insomma; l’amico Mattone (ormai praticamente inattivo su questo sito), che conosco di persona, in un’occasione l’ha addirittura definito all’incirca un “Jon Anderson dei poveri”. Eppure ero comunque curioso di vedere cosa avrebbe tirato fuori da solista e devo dire che mi ha sorpreso davvero.

Niente metal e niente prog, Ross non si porta dietro praticamente nulla della propria band e per la prima prova solista sceglie un raffinatissimo soft-rock, tutto a servizio della melodia, una melodia semplice ma tremendamente efficace. Le chitarre suonano in maniera molto soffice, vengono sollecitate il giusto; è una scelta rischiosa, il connubio fra brani poco strutturati e chitarre leggere può portare facilmente a melodie piatte e fiacche, ma tutto viene qui gestito in maniera egregia, la semplicità non esclude la cura dei dettagli, ogni tocco è essenziale e minimalista ma studiato. La voce di Ross qui assume sì un significato, non diventa certo una di quelle da mandare agli annali ma stavolta si fa apprezzare, pur mantenendosi piuttosto esile si rivela determinante nel reggere l’impalcatura melodica, è sorprendentemente una colonna portante, chi era scettico potrebbe rivalutarla. Svelato l’arcano, Ross Jennings non è un cantante prog-metal e quindi milita nella band sbagliata.

L’album comunque non si limita ad un pop-rock monocorde, c’è una buona varietà di soluzioni, anche particolari. Dalla freschezza acustica di “Better Times” e “Since That Day” al groove accattivante ed atipico di “Words We Can’t Unsay” e al funk alternativo di “Violet”, passando per il drumming frenetico e jazzato di “The Apologist”, fino al mood oscuro ma rivisitato in chiave alleggerita di “Year”, che richiama alcune composizioni degli Anathema. Menzione necessaria per i tre brani lunghi, sorprende l’abilità nel comporre brani di durata superiore alla media senza però cadere nella trappola prog. Quei tre brani sono in realtà esempi di semplicità pop-rock spalmata su 8 o addirittura 11 minuti: nella più lunga “Phoenix”, molto vicina ai Coldplay (ha qualche passaggio che ricorda “Clocks”), la brillante melodia è così distesa e ben ripartita che quegli 11 minuti non pesano affatto; in “Grounded” la voce di Jennings trova la sua massima espressività supportata anche da inserti orchestrali, una pulizia melodica che mi ha perfino ricordato i Subsignal più ispirati.

Al di là di questi episodi è comunque tutto l’album nel suo insieme a scorrere bene senza intoppi, i 75+3 minuti non si fanno sentire, passano senza che l’ascoltatore se ne accorga; oggettivamente non è per niente facile mantenere la stessa impostazione per 75 minuti senza cadere nella prolissità.

Per chiudere l’album Jennings fa una scelta anche piuttosto discutibile, pesca dal pop più insulso e commerciale e come bonus track sceglie di coverizzare un brano di Dua Lipa, “Be the One”, una scelta che non può non attirare le critiche dei puristi ma allo stesso tempo sembra lanciarci un messaggio piuttosto chiaro: possiamo fare i gli snob, i progger, gli alternativi e quant’altro ma alla fine, per quanto ci ostiniamo a nasconderci… abbiamo tutti un lato pop, siamo tutti un po’ popstar!

Che dire, “A Shadow of My Future Self” è una piacevole sorpresa, quella che non ti aspetti o che non pensavi lasciasse il segno. E probabilmente non finirà qui, dato che Jennings ha concluso l’anno annunciando di essere già al lavoro sul secondo album. L’attesa è già cominciata.

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