Nel descrivere un capolavoro spesso si fa uso di metafore ricorrenti quali "gioiello", "caposaldo", "pietra miliare". Non mi pare, invece, di essermi mai imbattuto nell'espressione "chiave di volta" che, a veder bene, è quella che meglio si applica a quest'album, l'ultimo inciso da quell'ensamble visionario e sorprendente che sono stati i Rotary Connection, fantastica realtà del soul americano più psichedelico e progressivo fra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70. In questo suo canto del cigno, infatti, il gruppo, fortemente voluto ed assemblato dal geniale pianista/produttore Charles Stepney, si allontana dalle cover che avevano caratterizzato i lavori precedenti e si affida pienamente alle proprie potenzialità compositive, facendo confluire nel proprio sound molteplici tensioni presenti nel panorama musicale di quegli anni, dal raffinato pop d'autore di Burt Bacharach al cantautorato di una Laura Nyro, dagli arrangiamenti squisitamente sopra le righe di Frank Zappa al funk-rock di Sly Stone.

Basta ascoltare il brano di punta della raccolta, la stupefacente "I Am the Black Gold of the Sun": una chitarra flamenco ci porta in un lussureggiante territorio fra reminescenze di bossa nova, riff alla Jimi Hendrix, splendide armonie vocali perse fra il Brasile e l'antico Egitto che si aprono quasi improvvisamente in una strofa liberatoria e stupendamente contrappuntata da cori precisi e arrangiati alla perfezione. L'eclettismo è quello del migliore Zappa, ma lo spirito è fortemente intriso di una mistica afro-americana che troverà la sua piena realizzazione solo successivamente nei lavori di Stevie Wonder o degli Earth Wind & Fire (prodotti, guarda caso, proprio da Stepney). Siamo di fronte alla classica traccia che da sola giustificherebbe l'acquisto di un intero album, ma gli altri brani non sono certo da meno.

La capacità di inserire melodie ricche di sentimento in contesti magniloquenti (ma mai stucchevoli) si mette in evidenza in "If I Sing my Song" (forse il brano più influenzato da Bacharach), "Love Is", grandioso inno all'amore con le voci (su tutte quella di Minnie Riperton, capace di arrampicarsi su note da capogiro e che più avanti avrebbe goduto di un ben più ampio successo commerciale da solista) in piena evidenza fra passaggi gospel e agili contrappunti jazz, e l'epica "Song for Everyman". C'è spazio per la canzone d'amore, spensierato ed appassionato in "Hey Love" e tormentato in "Hanging Round the Bee Tree", struggentemente interpretata dalla bella voce tenorile di Dave Scott, quasi un improbabile punto di incontro fra Marvin Gaye e Ian Gillan, accompagnato esclusivamente dal pianoforte e sporadici interventi di una sezione d'archi. La solo apparentemente sbarazzina "Love Has Fallen on Me" non sfigurerebbe in un musical, con i suoi temi mutevoli, le improvvise riprese, il tempo sincopato, l'inserirsi progressivo delle voci e uno squisito sapore soul capace di scaldare l'animo e coinvolgere.

A sorprendere, in generale, è la ricchezza e la coerenza del tessuto musicale, lo straordinario impressionismo del gruppo e dei suoi complessi arrangiamenti, la sua spigliata capacità di portare il pop americano ad un livello di artisticità davvero ragguardevole. Il debutto dei Chicago e dei già citati Earth Wind & Fire è dietro l'angolo, eppure si ha la sensazione che in questi solchi sia concentrata tutta la potenzialità della proposta sonora di questi due gruppi. Così, anche quello che è di fatto il capitolo finale della carriera di una band si trasforma in realtà in una finestra aperta sul meraviglioso panorama di quello che si rivelerà il più bel decennio del pop-rock (mi si conceda un po' di nostalgia), e ascoltare quest'album è un po' come respirare l'aria spumeggiante di quella entusiasmante stagione.

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