Rowland S. Howard, personaggio di spicco della scena punk e post-punk australiana, ex The Boys Next Door, ex Birthday Party, ex Bad Seeds, ex Crime and the City Solution, ex These Immortal Souls, muore per un cancro lo scorso anno, nell'anonimato più assoluto.
“Pop Crimes”, terzo album solista sulla lunga distanza, registrato sotto le cure intensive durante la fase terminale della malattia, esce postumo nel 2010.
Personaggio fondamentale quanto defilato dai circuiti della musica che vende, Rowland S. Howard confeziona in fretta e furia, prima che morte sopraggiunga, questo estremo saluto che io definirei un album dalla indicibile bellezza.
Quello di Rowland S. Howard è un cantautorato maledetto che, pur ancora venato dalla sporcizia sonora dei suoi progetti di inizio carriera, si ammanta di connotazioni metafisiche che lo avvicina di molto al Nick più spirituale. Del resto, il percorso con il Re Inchiostro parte da lontano, lontanissimo, è quasi un cordone ombelicale, fin dai primi passi mossi con la sua prima incarnazione artistica, i The Boys Next Door, per proseguire con gli imprescindibili Birthday Party, in cui Howard suonava la chitarra. Un legame che, nonstante la diversione dei percorsi, è rimasto nel tempo, seppur quasi invisibile, e non a caso Howard suona in album come “Let Love In” e “Murders Ballads”, e non è un caso che in questo “Pop Crimes” troviamo pezzi importanti dei Bad Seeds, come il mitico Mick Harvey (all'organo ed alla batteria). A completare l'essenziale formazione, segnaliamo infine J.P. Shilo (violino, basso, chitarra e trattamenti vari) e Jonnine Standish (che partecipa al duetto “(I Know) A Girl Called Johnny”, a lei stessa dedicata).
Che dire, un gran bel lavoro, che ovviamente farà la gioia di tutti coloro che amano Cave e derivati, che amano tutto quel calderone alternativo che vede come protagonisti gente come Lydia Lunch e Geremy Gluck (con i quali fra l'altro ha collaborato a più riprese). E' bene chiarire tuttavia che Cave e Howard se la giocano alla pari, e non si può certo dire che – nonostante i notevoli punti di continuità – il secondo sia derivato dal primo, bensì sembrano attingere entrambi dalla stessa fonte ispirativa, dallo stesso retro-terra culturale. Solo che uno ha avuto successo, l'altro no, e per questo il lavoro di Howard brilla di una sincerità che ahimé è impossibile rinvenire nei lavori odierni di Cave, sempre più impantanato in una deriva manieristica che svilisce un talento oramai in disgregazione. Un Cave meglio di Cave, quindi? No, un artista maledetto alle prese con la propria morte, un percorso che guarda all'Aldilà al passo fiero di un country epicheggiante e morriconiano, all'ombra di stridori di derivazione post-punk, acidità rock-blues e, perché no?, asperità avant-rumoriste (impossibile non pensare agli Einsturzende Neubauten più lineari). Dunque un capolavoro senza se e senza ma.
Già dalle prime note dell'opener “(I Know) A Girl Called Johnny” l'organo di Harvey ci porta dalle parti dei Bad Seeds, creando per due secondi un fastidioso senso di deja-vu che in verità viene subito spazzato dalla calata spettrale della voce (svogliata, sofferente, sublime) di Howard. Con Jonnine Standish che fa le veci di una ipotetica P. J. Harvey si completa così il brano più caveiano del lotto, ma già ci rendiamo conto che Howard brilla di un'unicità interpretativa che, coniugata alla profonda ispirazione (dettata probabilmente dalle condizioni eccenzionali in cui l'album è stato scritto e prodotto), lo rende un autore in possesso di una notevole cifra artistica e capace di emozionare in ogni singolo frangente. Anche se i paragoni sono continui, poiché “Pop Crimes” eredita l'ossessività che ha reso grandi i Birthday Party riversandola nelle trame di una poetica dell'Ignoto che affonda le radici in un insopportabile senso di perdita che pare oramai irrecuperabile. Un po' come succede negli ultimi lavori di Johnny Cash. Solo che Howard è un Johnny Cash un po' meno folgorato dall'idea che vi sia un Dio benevolo ad aspettarci dall'altra parte della tomba; un Cash tossico, strafatto, disincantato nonostante la necessità di aggrapparsi da una speranza che sia una.
Per questo la successiva “Shut Me Down” fa venire i brividi per il suo passo desolante, mentre “Life's What You Make It” è una sublime rivisitazione fiume dell'omonimo brano dei Talk Talk, percorsa da un singhiozzante e paranoico incedere di percussioni e scossa da un'irrequieta elettricità blues-psichedelica.
Palma d'oro alla title-track, altri sette minuti di fottuto rock fumoso e notturno più nero e fumoso della notte stessa: un cazzuto giro di basso, sferzate di chitarra al cianuro e l'immancabile voce derelitta di Howard. Uno di quei pezzi che vorresti non finissero mai.
Siamo al giro di boa: “Nothin” è un country traballante (come al solito illuminato dalla voce magnetica del singer), ma non “il-tipico-country”, poiché il retroterra cultural-tradizionalista del Nostro è continuamente irrigato dalle ossessioni di una musica che dal '77 in poi non è stata più la stessa (tanto per intenderci: in questo album non compaiono chitarre acustiche). E guarda caso, nella successiva “Wayward Man” tornano i nervosismi dei Birthday Party, per un momento abbandonati in “Avè Maria”, l'immancabile parentesi mistica: uno struggente ballatone in cui si fa concessioni ad un rock più sentimentale (sentite come monta la chitarra nel finale), a testimoniare il momento di fragilità attraversato dall'autore, che a tratti poteva sperare in una progressiva guarigione (arrestata poi da una fatale ricaduta). L'opera si conclude con “The Golden Age of Bloodshed”, altra calata negli inferi di un malato terminale che non cede alle lusinghe della morte, ma continua la sua crociata maledetta contro il mondo e per la vita.
Per me un gran bel disco, per tutti (ma proprio tutti) un piacevole regalo da scartare sotto l'albero di Natale.
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