Nel 2001 Bryan Ferry era ancora in splendida forma. Non che adesso, nel 2022, non lo sia più… ma è che ad 80 anni diventa veramente difficile impersonare la figura della dandy rock star. Lui a dire il vero ci riesce ancora benissimo. Sarà per la sua classe immarcescibile o perché il suo stile non è “tramontabile”. Con tutta onestà, l'uomo sembrerebbe elegante anche indossando la divisa gialloblu di Ikea ed il suo appeal non si discute. Ma il motivo vero per il quale Bryan Ferry non invecchierà mai, come toccherà fare mal volentieri a tutti noi, è perché lui fa già parte del mito. In fondo noi stessi vorremmo che il tempo si fosse fermato a quegli splendidi filmati dei seventies, nei quali lo vedevamo corvino e leopardatissimo, con al fianco quell’alieno, pieno di strass e paillettes, che ancora non sapeva di essere il grande Brian Eno. E poi Bryan Ferry, esattamente come Marlon Brando, “è sempre lui”. Nel 2001 Bryan ha quasi 60 anni, ma non sembra. Si presenta così calmo, freddo e così dannatamente soave e distaccato che sembra il protagonista di un episodio nuovo di James Bond. Quello che fa più incazzare è che sembra solo sfiorato dai tormenti e dagli stress di una vita passata sui palchi di mezzo mondo e, diosolosa, nelle camere di albergo la notte con chissà che strafighe attaccate lì sotto.
Dicevo del 2001 però, anno importante, perché Bryan realizza uno dei suoi (e nostri) sogni nel cassetto, ovvero il tour “definitivo” dei Roxy Music, riformati per l’occasione. E non pensate che sia stata una “reunion” motivata, come troppo spesso accade, solo da motivi spudoratamente commerciali, non solo perlomeno. La leggenda narra che questo tour sia stato il risultato di un volo aereo di quelli da cacarsi nelle braghe. Su quel volo turbolento e disperato, caso volle si trovasse Bryan Ferry che invano incrociava le dita sotto le chiappe e pregava tutti i cristi del suo paradiso, per non precipitare. Sembra che il nostro abbia davvero pensato che l'aereo stesse cadendo e che non avrebbe mai potuto raccontarlo nemmeno in una canzone. E quando quel pensiero orribile gli era passato per la testa, come la parrucca a Cesare Ragazzi, si era reso conto che quello che desiderava veramente era solo poter riavere la band che lo aveva reso famoso, i Roxy Music. Non so se sia vera ‘sta panzanella, ma certo intrippa più della storia dei soldi. Fatto sta che Bryan, sceso dall’aereo e cambiatosi le mutande, chiama a raccolta i sodali Andy Mackay, Phil Manzanera e Paul Thompson, tutti ricchi e benestanti come ad ognuno di noi piacerebbe essere almeno per un fine settimana. La proposta è semplice. Riformare la band e (re)interpretare le canzoni dei Roxy Music come mai si era riusciti a fare prima! Non ai tempi brevi dell’istrionico e incontrollabile Eno (che gentilmente rifiuta l’offerta) e nemmeno negli anni del pupillo androgino, Eddie Jobson, straordinario musicista del quale abbiamo perso le tracce e che anche in questo caso non si manifesta nel lotto. Nel documentario in DVD che accompagnava l’uscita dello splendido disco triplo, intitolato sinteticamente “Live” ed edito in edizione piuttosto limitata nel 2003, viene spiegato tutto abbastanza bene. E noi vogliamo fidarci.
Le venti canzoni presentate erano e sono un vero regalo per i fan (in effetti, i fan sono stati consultati per un input sulla scaletta del tour del 2001) e tracciano una sinossi ben bilanciata dell'intera carriera dei Roxy Music. Mentre si sfoglia il loro prezioso catalogo e si ascoltano le canzoni, si vede la progressione di un suono diventato un riferimento per un milione di bands. Pensando al “lungo tragitto” da “Re-make/Re-model” fino ad “Avalon”, non ci sembra vero che tra le due versioni dei Roxy siano effettivamente passati solo una decida di anni. La distanza sembra siderale, molto più che nella cronologia delle date. Nel loro periodo di massimo splendore, gli anni 70, i Roxy Music sono stati sicuramente all'avanguardia del glam, della new wave, persino al limite del punk. Poi con il passare degli anni, si sono molto addolciti diventando un gruppo rock più tradizionale, quasi di puro entertaiment. La band ha avuto sicuramente due anime. Quella giovanile, sfrenata, sperimentale e coraggiosa. Quella della maturità, più consapevole e meno emozionante ma sempre di gran classe. In “Live” le ritroviamo entrambe, in una full immersion di esecuzioni impeccabili, alcune delle quali trasudano di definitivo. Per il pubblico in visibilio è un'esperienza di concerto molto divertente e a tratti favolosa. Tutti, dai quattro Roxy originali, ai musicisti assoldati per il tour, come Colin Good al piano o i “Roxy ad honorem” Chris Spedding alla chitarra appaiono in buona forma. Per non dire dell'adorabile e straordinaria Julia Thornton alle percussioni e tastiere aggiuntive, di Sarah Brown e Yanick Etienne ai cori ed anche delle quattro splendide ballerine che fanno una pippa alle nostre veline di striscia. Insomma il palco è strapieno di gnocca, argomento al quale Bryan è sempre stato particolarmente sensibile e tutti, dicevo, forniscono prestazioni impeccabili. Ah scusate, vi volevo colpevolmente nascondere la stratosferica violinista/polistrumentista Lucy Wilkins, della quale sono molto geloso e ancora pazzamente innamorato.
Le canzoni del disco sono quelle che hanno fatto la storia. In queste esecuzioni “live” sono riprodotte fedelmente, il che è un'impresa non da poco, considerando la diversità degli stili attraverso i quali la band è passata. In qualsiasi caso, tutte sono eseguite con vera passione e una sorta di ritrovato cameratismo tra i principali attori sulla scena. Vorrei fare alcune menzioni speciali. Una “Street Life” mai così ben eseguita, con una grinta non scontata, una fluida “Out of the Blue” di Manzanera dal finale epico, una sorprendente “Oh Yeah!”, che ci sta tantissimo tra classici di statura decisamente superiore. E poi ragazzi, una “Both Ends Burning” letteralmente stratosferica. A mio parere questo è il loro più spettacolare pezzo di sempre, con le chitarre travolgenti, il sax debordante dell’autore Andy McKay e le coriste sugli scudi “till the end”. Uno spettacolo! Bryan Ferry è ancora "Mr Style" in ogni sua interpretazione, anche se fa un pò fatica con la voce e le ragazze gli danno spesso una mano nei toni alti. Mi piace molto lo strumentale “Tara” che introduce una “Mother of Pearl” magnifica e anche “Avalon” ha la stessa ipnotica dolcezza di sempre. La sequenza finale è un trionfo ma sotto lo spessore enorme dei pezzi più celebri del gruppo troviamo le crepe dell’età. Così “Editions of you” vacilla e non ha la brillantezza di un tempo e se “Virginia Plain” sembra poter competere con i fantasmi, “Do the Strand” finisce per mostrare il limite del lungo viaggio dei Roxy Music oltre il confine precario del glamour.
L'eleganza è sempre stata un'idea controversa nel rock. La pretesa di una musica “di classe”, dedicata a superare le stesse divisioni della società è sempre sembrata un paradosso ma, per la band, anche una fonte di ispirazione. Questo vero e proprio testamento musicale non smentisce i Roxy Music. Il loro suono si confronta nuovamente con la sua pretesa di superare le barriere, sfidando una volta ancora le nozioni condivise di raffinatezza. La musica incide profonda, passa repentinamente da caotica a fredda, pur rimanendo radicata nelle celebri giustapposizioni che hanno sempre rappresentato la cifra stilistica della band. E’ una musica che ritroviamo qui rassicurante, come un antico riparo. Forse ha perduto per strada la sua varietà provocatoria ma rifiuta di arrendersi con rassegnazione alla nostalgia ed al repertorio. Ed è questa la forza di questo album, tre vinili pieni di suggestioni e di ricordi che non dovrebbero mancare in una collezione qualsiasi che voglia chiamarsi tale. Ora e per sempre, “Viva Roxy Music!”.
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