Quella di Roy Harper è sicuramente una delle figure più interessanti e allo stesso tempo eccentriche della storia del cantautorato anglosassone. Roy Harper, infatti, fu testimone di Geova e cadetto nella Royal Army e, ancora, vagabondo. Eppure, contemporaneamente, non fu mai nessuna di tutte e tre le cose. Nel corso della sua giovinezza, fu sottoposto a interventi di elettroshock a seguito di crisi nervose, ma le sue canzoni, pure caratterizzate, particolarmente negli anni della gioventù, da questo suo modo di cantare particolare e stralunato, oltre che da gli arrangiamenti sofisticati e caratterizzati da uno stile quasi "barocco", sono sempre state delle disamine lucide, attente e puntuali sulla società e sul mondo che ci circondi. Tanto è vero che egli sia sempre stato più prossimo a Tim Buckley, magari Syd Barrett, almeno per quanto riguarda l'utilizzo della voce; piuttosto che David Peel o addirittura Marc Bolan.

Da un anno e mezzo, almeno, uno dei temi più dibattuti nel nostro paese, e capace pure di raccogliere consensi tra la popolazione e l’opinione pubblica in genere, è quello de “la rottamazione”. Questo termine, per quanto sgradevole e introdotto pure a suo tempo, quando la sua figura salì alla ribalta della cronache giornalistiche, dall’attuale presidente del consiglio dei ministri, Matteo Renzi, finì nel tempo con il divenire di largo utilizzo praticamente presso tutti e presso tutte le forze politiche, assumendo una connotazione poi indefinita. Dove peraltro lo stesso Matteo Renzi non avrebbe risolto all’interno del suo stesso partito questo conflitto che potremmo definire innanzitutto generazionale; dove sia egli tuttora osteggiato da “quelli che,” nel suo partito, “c’erano prima”. E ci sono ancora. Nella specie, comunque, questo termine avrebbe dovuto inizialmente riferirsi a un rinnovamento della classe politica del nostro paese e a un generale rinnovamento nei modi di fare politica. Salvo, poi, assumere un significato più ampio e allargando le sue radici a ogni settore della vita sociale, pubblica e privata del nostro paese.

Ma diciamocelo chiaramente: in fondo siamo tutti stanchi di questi vecchi e di tutto questo vecchiume. La colpa, se tutte le cose sono andate in puttane in questo paese e più in generale nel mondo intero, non sarà mica nostra. Voglio dire, come potrebbe essere colpa della nostra generazione. Personalmente sono nato nella prima metà degli anni ottanta e, quando avevo compiuto sei anni, i giochi erano già tutti fatti: il muro di Berlino era crollato; la guerra fredda era finita; tutti gli ideali che i nostri genitori ci avrebbero trasmesso, quando eravamo solo dei ragazzini, erano diventati pura utopia ancora prima che potessimo raggiungere la maggiore età e molto molto prima avessimo la consapevolezza necessaria di saper decidere, di poterci fare una nostra opinione su tutte le cose. E chi aveva, chi ha ammazzato tutti questi ideali, tutti i sogni che ci cullavano quando eravamo ragazzi, sono stati loro: i vecchi, "quelli là" della generazione precedente.

Rottamiamoli allora. Perché no? Lo avete visto La decima vittima di Elio Petri? Il film è tratto dal racconto La settima vittima del grande scrittore di fantascienza Robert Sheckley ed è ambientato in una Roma parecchio pop-art dove Marcello Mastroianni e Ursula Andress si rincorrono, nel più ampio ambito di una competizione internazionale organizzata allo scopo, per farsi fuori, ammazzarsi reciprocamente. Alla fine, come spesso accade inevitabile ne la città eterna, oppure de La grande bellezza (la butto lì, giusto per fare un po’ di polemica, che agli haters questa cosa piace sempre…), i due finiscono con l’innamorarsi perdutamente. Comunque, nel film, nella società fantascientifica e allora futuristica raccontata nel film, i vecchi, a una certa età, li facevano fuori. A un certo punto, semplicemente se ne liberavano. Li rottamavano. Pure accade più o meno la stessa cosa in Soylent Green di Richard Fleischer. Lì, però, erano i vecchi che alla fine si lasciavano morire, terrorizzati dal mondo che essi stessi avevano contribuito a creare. Questi poi, le loro carni, venivano in seguito riciclate sottoforma del cosiddetto soylent verde e distribuite allo scopo di sfamare la popolazione. Ma adesso sto divagando…

Se invece avete letto Soul On Ice di Eldridge Cleaver probabilmente conoscerete “La storia di Yacub”, il mito della creazione dell’uomo bianco. Secondo questo mito, secondo questa storia, circa 6.300 anni fa la terra era abitata esclusivamente da uomini neri. Questi conducevano la loro esistenza sull’isola di Patmos, dove uno scienziato pazzo, Yacub appunto, aveva ordito una malvagia macchinazione allo scopo di griffare di bianco il colore della pelle della popolazione della Terra. La popolazione dell’isola, infatti, era di 59.999 abitanti e tutte le volte che una coppia intendeva sposarsi, veniva loro concessa questa possibilità solo se vi erano nella colorazione della loro pelle delle differenze: ad esempio, un nero poteva accoppiarsi solo con una donna che avesse la colorazione della pelle più chiara, di colore marrone. L’intero processo sarebbe durato centinaia di anni, ma, alla fine, Yacub, una specie di mitologico Matusalemme, sarebbe riuscito a realizzare il suo scopo: quello di generare un uomo bianco con gli occhi del colore azzurro della morte.

Adesso, vedete, al di là delle questioni strettamente razziali, Roy Harper odiava, ha sempre odiato nel corso di tutta la sua esistenza l'uomo bianco e molto probabilmente lo odia ancora, consapevole che ci sia un uomo bianco in ognuno di noi. Che questo uomo bianco sia la peggiore parte di noi. Quella che anch'egli ha cercato in qualche modo di esorcizzare, di annientare nel corso della sua vita avventurosa e nel corso della sua carriera musicale, oramai quarantennale e inevitabilmente caratterizzata da alti e bassi.

Alti e bassi, dicevamo; così, questo ultimo disco, Man & The Myth, è forse lontano dallo standard che fu quello di capolavori della storia della musica quali Flat Baroque & Berserk (1970) e Stormcock (1971), pure riprendendone in qualche modo, se non in toto, le tematiche. Il fatto è che questo conflitto interiore, quello contro l’uomo bianco, appare in qualche modo ancora oggi irrisolto e pure lontano da sciogliersi. Lo stesso Roy Harper appare, oggi, forse meno turbato che in passato, ma piuttosto che avere risolto il suo conflitto interiore, questi è inevitabilmente stanco, come potrebbero essere tutti gli uomini anziani che, nel corso della loro esistenza, abbiano lottato contro il mito della peggiore parte di se stessi.

Perché, allora, ascoltare il disco di un vecchio stanco come potrebbe essere Roy Harper? Intanto perché questa è la sua prima pubblicazione dopo circa quindici anni e perché la produzione artistica e musicale sarebbe di quel grande viaggiatore psichedelico che corrisponda al nome di Jonathan Wilson, che pure contribuisce attivamente agli arrangiamenti e alle musiche del disco. Secondariamente perché Roy Harper, nonostante tutto, dimostra pure in questa occasione di sapere ancora scrivere delle buone canzoni e, dove alcune appaiano forse stanche, troppo standard, negli arrangiamenti (es. “Cloud Cuckoo Land”), altre sembrerebbero proprio riprendere, vivere di quella stessa forza, di quella stessa lucentezza che fu tipica delle opere migliori di Harper. Sono queste canzoni (“The Enemy”, “Heaven Is Here”, “The Exile”) dei lunghi viaggi di introspezione e in qualche modo di comunione con le emozioni e i pensieri dell’artista e uomo Roy Harper.

A questo punto, è evidente che ascoltare, oggi, un disco di Roy Harper sia qualche cosa che abbia ancora un suo perché. Ha un suo perché, dove la nostra società non appare in qualche modo essere radicalmente diversa da quello che era in passato. Pradossalmente, oggi, la popolazione giovanile si divide in una visione romantica e assolutamente illusoria del mondo passato, rinnegando quindi quella che poi sarebbe la propria generazione e il mondo in cui vive; un'altra parte, più consistente, stando al nostro paese, avrebbe invece ora assunto un atteggiamento di totale rottura con il passato e con i propri genitori, con la generazione passata, che, appunto, "deve" necessariamente essere rottamata. Dove forse ciò che andrebbe rottamato, combattuto, annientato alla fine sarebbero proprio questi “uomini bianchi”, la parte peggiore di noi stessi, questi fantasmi che alberghino in modo invadente e aggressivo le nostre anime e finiscano facilmente, sovente, con il prendere il controllo delle nostre vite e delle nostre azioni. Qualche giorno fa, scrivevo che, “essere contro tutto e tutti, per un ragazzo, è un dovere; per un adulto, un lusso; per un vecchio, è inevitabile.” Ma dischi come Man & The Myth a loro modo rompono queste barriere generazionali e invitano a metterci in gioco tutti noi nella nostra individualità e poi tutti assieme come società. Dopotutto, probabilmente, è il suo migliore disco in quarant'anni e, a modo suo, un messaggio alle nuove generazione, ma pure un tramite, un ponte con quelle passate.

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