…e poi, all’improvviso, lei arriva. La Morte.
Proseguendo il mio excursus nella produzione solista del chitarrista psichedelico neozelandese, mi imbatto nel suo secondo lavoro: “Temple IV”. Disco strumentale formalmente ispirato dal suo viaggio a Tikal, città immersa nel cuore della foresta pluviale in Guatemala, dove Roy aveva potuto abbeverarsi alla fonte della civiltà Maya contemplando il famoso “Tempio IV” (o “Tempio del Serpente a due teste”), mi accorgo che sostanzialmente, ascoltandolo e leggendo le note sul booklet, le cose non stanno esattamente così.
Se nei pezzi della sua prima opera solista, “Scenes From the South Island”, la natura e lo spazio esterno circostante erano il soggetto, in questo disco diventano il complemento oggetto dove si riversano tutte le emozioni e il sentire di Montgomery profondamente turbato dalla morte della donna che amava.
La sintassi psichedelica di Roy quindi, in luogo di un disco fortemente impressionista e panteista come è stato il primo, ha prodotto stavolta un lavoro espressionista ed esistenzialista: vero e proprio percorso di auto-analisi alla ricerca di un nuovo equilibrio psico-fisico, percorrendo tutti i vari step emozionali che lo separavano dal superamento/accettazione del lutto.
“She Waits on Temple IV” e un lungo e soffice epitaffio che, per la leggerezza e delicatezza dell’ intreccio dei jingle di chitarra, Roy sembra aver scritto non su una lastra tombale, ma piuttosto su una nuvola o sulla sabbia in riva al mare; un’ evanescente Mandala pregno di dolcissimi ricordi composto nella camera ardente della sua compagna.
I ricordi, però, possono fare male: le fortissime distorsioni che sopraggiungono sul funereo incedere d’organo di “Departing the Body”, sono il lancinante dolore di Montgomery totalmente avviluppato dal senso di irrimediabile perdita. A questo pezzo, uno dei più emotivamente carichi che abbia mai scritto, segue l’arpeggio di gran classe di “The Soul Quietens”: una fuga, continua, incessante, una fuga felina, leggiadra, delicata, non importa, basta che si fugga. Lo sguardo, il pensiero, le sensazioni, non possono fissarsi sulle rovine della città Maya, sulla rigogliosa flora, su nulla! Il pensiero di Lei è lì che aspetta, bisogna muoversi per non ricordare, ma alla fine, esausti, improvvisamente ci si arresta.
Immobile, a Roy pare che le cose si stiano pian piano liquefacendo come se fossero neve al sole: “The Passage of Forms” è un oscuro incantesimo di “Magia Nera”, dove il serpeggiare intriso di delay della chitarra sembra l’anima che percepisce il disfacimento del mondo circostante che non ha alcun senso senza di Lei. Contraltare di questo pezzo, (preceduto dalla rocciosa “Jaguar Meets Snake”, pezzo dall’incedere quasi epico dove “vediamo” gli enormi sforzi di uomo che tenta di riportare in equilibrio il proprio spirito e la propria psiche) è “Above the Canopy”: stavolta il delay chitarristico, grazie alla “Magia Bianca” prodotta dalla testa di serpente benevola del tempio, produce la rifioritura del tutto circostante ed il tenue drone elettronico che affiora di tanto in tanto sembra l’anima di Montgomery che si slancia verso l’alto in una nuova percezione di sé e delle cose.
Chiude il disco il breve arpeggio venato di serena malinconia di“Jaguar Unseen” e forse non è un caso la sua brevità: probabilmente è solo un fugace ritrovamento d’equilibrio e, per superare ed accettare realmente il lutto, a Roy non è bastato comporre “Temple IV”, ma ha dovuto ripercorrere tutti questi step più e più volte.
Dostoevskij scrisse “Il Giocatore” soprattutto per liberarsi della sua morbosa ossessione per il gioco d’azzardo e in fondo, descrivendo tutti gli stati d’animo di un ludopatico, ha compiuto un percorso simile a Montgomery. E’ probabile che anche per lui non sia stato sufficiente finire il libro, ma non bisogna scoraggiarsi. Come dice il protagonista in chiusura del romanzo: “…Domani, domani tutto questo finirà!”.
Carico i commenti... con calma