Prima di seppellire il rock sotto i cumuli di rumore assordante del controverso capolavoro "Twin Infinitives", i due ex-fidanzatini Neil e Jennifer approfondirono il discorso iniziato (da Hagerty assieme a Jon Spencer) coi Pussy Galore, a metà anni 80: cambiare la faccia del "vecchio" blues e plasmarla secondo le esigenze e le ambizioni di una generazione protesa ad abbattere ogni tipo di barriera (concettuale e sonora). E se i Pussy Galore spinsero l'acceleratore in direzione di una grottesca e intransigente cacofonia, i Royal Trux di questo loro omonimo debut-album, datato 1988, rivelarono un approccio meno integralista, più eclettico, più cromatico e, in definitiva, più surreale.    
Viene meno il nerissimo monolite di fracasso col quale i Pussy Galore dichiaravano la loro ortodossia in campo noise: al suo posto, un recupero della no-wave più scheletrica (Half Japanese su tutti) e magari (perché no?) del puro dilettantismo delle mitiche sorelle Shaggs (il gruppo più anomalo degli anni '60).
Poi c'è il Capitano. Tirato spesso in ballo laddove c'entra ben poco, Captain Beefheart (quello di "Trout Mask Replica" e, in generale, di tutti i brani in cui compare la chitarra dell'immenso Jeff Cotton) si sente parecchio in questo disco, molto più che in "Twin Infinitives", nel quale ad essere decisiva è invece la lezione dei grandi rumoristi dei decenni precedenti (e questo potrebbe scagionare automaticamente "Trout Mask Replica" dalle "accuse" di rumorismo). Inoltre, rispetto a "Twin Infinitives", "Royal Trux" ha anche un approccio più "lo-fi", con uno spazio limitato concesso al taglia-e-cuci e alla manipolazione elettronica ("Zero Dok", accumulo di detriti blues-rock accarezzati da una lontanissima brezza di violini; "Touch", stordente omaggio al Varèse di "Déserts"). Un'altra differenza con "Twin Infinitives" sta nell'aspetto ritmico: là avevamo ritmi spiaccicati sull'indigesta marmellata di chitarre e tastiere; qua un disordinato utilizzo di percussioni poliritmiche (come in "Strawberry Soda" o "Gold Dust").
Ma al di là dell'estro dei comprimari, il cervello della band resta Hagerty. "Bad Blood" si regge tutto sul fraseggio assurdo della sua chitarra, così sfrontata da rivaleggiare con qualsiasi Jad Fair: il risultato è uno dei blues più irrazionali di sempre, dallo svolgimento libero, molto più vicino di quanto si sia disposti a credere allo spirito istintivo che guidava i vagabondi del Delta. Hagerty non è solo un geniale improvvisatore, ma anche un consapevole "organizzatore" di materia sonora. Lo dimostra in "Since I Bones", che procede per continue sovrapposizioni di blocchi cacofonici o in  "Incineration", vero e proprio bidone di rottami blues-rock, urla mozzate, fuzz cartooneschi, fischietti impazziti e quant'altro. La Herrema, da par suo, oltre che urlare impotentemente, partecipa al massacro con le sue tastiere: il pianoforte autistico di "Set Up" e l'organo stridente di "Walking Machine".
Non manca una certa vena ironica, come in "Jesse James", la loro "Veteran Day Poppies", dissacrante satira dell'American Dream, con tanto di marcetta e flauto fuori tempo. E se "Esso Dame" riporta alla cadenza ottusa dei Pussy Galore, "Bits and Spurs" è una boccata d'aria fresca: una ballata, finalmente, dove l'esile melodia viene però disturbata da ogni tipo di interferenza e interrotta da continue pause e ripensamenti. 
Nonostante l'apparente trasandatezza di questi brani, l'operazione di rifondazione del blues è molto più dotta e ricercata di quanto non appaia. "Hashish" è una spensierata jam in perenne mutazione, libera da ogni costrutto, da ogni imposizione, come i migliori quadri astratti della Magic Band; in "Sanction Smith", invece, ad andare fuori dalle righe è la sezione vocale, che reinventa il call'n'response: sono brani che ridefiniscono il concetto di ritmo, armonia, struttura, evoluzione del brano. E nell'insidiosa palude di "Hawkin Around" compare, deformata, una delle "istituzioni" della musica del diavolo: la slide-guitar. 
Ma l'episodio più significativo è probabilmente "Andersonville" che, coi suoi riverberi chitarristici e il suo canto sonnambulo, rimanda a due Maestri dell'avant-rock: Mayo Thompson e David Thomas. E' qui che si raggiunge il completo distacco tra sezione ritmica e sezione armonica, la totale scomposizione dell'edificio sonoro nei suoi singoli mattoni, praticamente il cubismo in musica: è come se i Royal Trux ci guidassero in un'affascinante ispezione della musica rock, facendocela ammirare dai punti di vista più inediti e rivelandone così gli aspetti che, dagli anni 50 ad oggi, sono sempre rimasti nascosti alle nostre orecchie.

Carico i commenti...  con calma