I Rush da ormai un bel po' di anni abituano i fans ad attendere più o meno un paio di anni prima di poter ascoltare un nuovo lavoro. Tempi lunghi segnati da tour intermedi e notizie occasionali sullo stato dei lavori. Però alla fine vengono sempre ben accolti dalla propria platea. Era successo con "Snakes And Arrows" e succede ancora una volta con "Clockwork Angels".
Sotto questo punto di vista i Rush sono diciamo l'opposto dei Dream Theater. Mentre per i Dream Theater le uscite sono meno distanti l'una dall'altra e vengono continuamente bistrattate, qualsiasi sia l'approccio proposto, magari gridando alla merda già prima dell'uscita... i Rush invece mettono praticamente sempre d'accordo tutti o quasi qualsiasi sia la proposta, quasi come se su di loro si esercitasse un fenomeno di fanboyismo, sarà forse per il carattere quasi istituzionale che la band ha assunto nel continente nord-americano. E così non c'è affatto da sorprendersi se "Clockwork Angels" ha messo d'accordo fans e critica.
Ma veniamo a parlarne... I Rush avevano fatto partire l'attesa già da fine 2009 circa quando annunciavano il ritorno in studio con lo stesso produttore di "Snakes And Arrows" e già nel 2010 abbiamo un singolo che contiene già le prime due tracce del futuro disco, ovvero "Caravan" e "BU2B", prima di partire per l'acclamato "Time Machine Tour" che avrebbe ritardato ulteriormente l'uscita del lavoro. Ma alla fine nel giugno 2012 "Clockwork Angels" è realtà. I Rush stupiscono ancora, non vogliono fare un nuovo "Snakes And Arrows" e così regalano un album di hard rock sincero ed affilato, con pochi momenti di calma ma senza arrivare al sound cavernoso di "Vapor Trails", venendo così a formare quasi una controparte con il precedente disco, dal respiro più acustico. L'album, pur proponendosi come album duro e trascinante destinato agli amanti dell'hard rock, non manca di mettere in luce le abilità tecniche dei tre canadesi nonché la loro voglia di mostrarsi sempre molto in vena nonostante l'avanzamento dell'età anagrafica e biologica. Splendido ed ispiratissimo il basso di Geddy Lee, sempre molto varia la ritmica di Neil Peart, non da meno la prestazione chitarristica di Alex Lifeson.
Chi apprezza i Rush anche come solisti non rimarrà deluso. Ma l'album necessita di un paio di ascolti per essere colto appieno e penso che il motivo risieda proprio in questo approccio consistente nel voler mettere uno contro l'altro la voglia di realizzare un disco potente da una parte e la voglia di realizzare un prodotto suonato con classe e una moderata varietà strumentale dall'altra. A far compagnia ai tre, nonché a portare una ventata di freschezza, vi sono poi degli arrangiamenti orchestrali che fanno da sottofondo in alcune tracce, di lì la scelta di portare un'orchestra nel tour promozionale del disco. Ma facciamo una panoramica sulle tracce. L'album è un concept album che narra la storia di un giovane che attraversa diversi ostacoli per raggiungere i propri sogni. La scelta del concept ha incuriosito tutti, dato che finora non ne avevano mai realizzato uno vero e proprio. Ma ad incuriosire ulteriormente i fan era l'annuncio della possibile presenza di tracce lunghe, se non addirittura di una suite. Curiosità giustificata dal fatto che i Rush non hanno mai più raggiunto i sette minuti dopo il 1981 (gli 11 minuti di "The Camera Eye" in "Moving Pictures"). Alla fine non vi è nessuna suite ma si torna comunque a sforare i 7 minuti con la titletrack e con "Headlong Flight" la prima propone quasi un hard progressive, dato che cambia spesso ritmiche e parte improvvisamente con staffilate hard rock che potrebbero ricordare subito una "Double Agent" da "Counterparts", la seconda è un brano invece più affilato e diretto con un riff che ricorda molto una "Bastille Day". Sono i due punti forse più alti ma non son da meno brani come "Seven Cities Of Gold" e "Carnies". Qualità elevata anche nelle più immediate "The Wreckers" e "Wish Them Well".
I toni forti dell'album vengono spezzati da brani con una maggiore presenza acustica come "Halo Effect" e la splendida conclusiva "The Garden", che include anche un intermezzo al pianoforte. In conclusione dico che si tratta assolutamente di un disco degno del loro nome e con una propria identità, che prende sicuramente spunto da cose già fatte dalla band ma non è clone di nessun altro disco. Non parlerei di capolavoro perché soffre a volte di un po' di prolissità e tende a rigirarsi un pochino su sé stesso con lo scorrere dei minuti. Preferivo forse l'approccio più acustico e leggermente più vario stilisticamente di "Snakes And Arrows" ma comunque è un disco che mi ha tenuto compagnia durante questa calda estate e che sicuramente metteremo nei ripiani alti delle classifiche annuali.
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