Uscito nel 1985, in piena esplosione sinth pop, 'Power Windows' è uno dei più discussi album della discografia dei Rush: disprezzato da molti, per le eccessive concessioni al suono plasticato dell’epoca, apprezzato da altri, che hanno colto la continuità dell’album rispetto ai lavori avviati con 'Signals', senza che fossero state snaturate le attitudini del gruppo, ricettivo verso ogni genere di musica contemporanea.

Vi è da dire che l’album è assai distante dai lavori che hanno reso famosi e amati i Rush in ambito rock prog nella seconda metà degli anni ’70, anche se ciò non vuol dire che PW rappresenti il nadir qualitativo del terzetto di Toronto. Forse il miglior modo per avvicinarsi all’album è quello di… ignorare che si tratti di un lavoro dei Rush, cercando di coglierne le qualità intrinseche a prescindere dalle etichette e dalle aspettative che ogni opera del gruppo genera in chi abbia sentito i loro masterpieces degli anni ’70. Cerchiamo di farlo ora.

The Big Money, posta in apertura dell’album, si giova di un granitico riff di chitarra, i cui echi formano la base della canzone: su di essi si staglia la voce di Geddy Lee, meno esplosiva che negli anni e negli album precedenti, evolutasi in maniera molto simile a quella di Jon Anderson degli Yes; le tastiere giocano un ruolo non secondario nell’andatura del pezzo, ornandolo con sonorità che non sarebbero dispiaciute al Peter Gabriel di quegli anni. La successiva Grand Design, introdotta dai sintetizzatori, è caratterizzata da un andamento più quieto, e dall’ottimo tessuto ritmico di Lifeson e Peart: molto raffinato il ritornello, che cerca di scostarsi da facili soluzioni armoniche. Manhattan Project, con riferimenti all’incubo atomico e post–atomico, enfatizza maggiormente la vocazione pop dell’album, ma lo fa con una classe e compostezza tutta particolare, non banale soprattutto nella parte centrale del pezzo, in cui tastiere e chitarra riecheggiano le iterazioni del classico suono Rush.

Il picco emotivo dell’album è rappresentato da Marathon, dal testo particolarmente profondo ed introspettivo: sotto il profilo prettamente musicale, si tratta di un rock sinfonico, con interventi orchestrali, dalla forte presa melodica. La successiva Territories innalza il livello tecnico del lavoro: il pezzo non è immediato e ripropone, attualizzandolo, il prog rock dei primi Rush, seppur in un contesto differente e con diverse strumentazioni, con una splendida conclusione lasciata al basso ed alle tastiere di Geddy Lee. Middletown Dreams torna a distinguersi per i testi di Peart, sebbene appesantita da un eccessivo intervento dei sintetizzatori che rubano eccessivo spazio agli altri strumenti, senza aggiungere al brano particolare creatività. Emotion Detector è, probabilmente, il pezzo più vicino al pop realizzato dai Rush nel corso della loro trentennale carriera: basti confrontare l’alternanza strofa/ritornello, la facilità della melodia e l’intervento decorativo del sintetizzatore.

La conclusione dell’album è affidata, invece, ad un vero capolavoro, sia nel testo che nelle musiche, quale Mystic Rythms: una canzone commovente che cerca di spiegare (riuscendovi) il mistero della musica, dai suoi battiti primordiali alle elaborazioni elettroniche degli anni ’80, gemma del repertorio Rush del periodo. Un giudizio di sintesi sul lavoro appare, a fronte di quanto osservato, piuttosto difficile: se è vero che tutte le canzoni sono di ottimo livello tecnico/compositivo, si nota con un certo rammarico l’involuzione del suono del gruppo, specie nelle parti di chitarra e di batteria, ed un eccessivo ossequio alla forma canzone, già palesatosi, invero, negli album precedenti.

Va anche detto che quest’album cresce con gli ascolti: quando me l’hanno regalato meritava un 2, a distanza di undici anni gli darei 4, fingendo di ignorare le meraviglie degli anni ’70 (a cui andrebbe un voto ben superiore al 5 gentilmente concesso da Debaser).

Spero di non essere troppo buono, ma per i Rush questo ed altro.

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