David Ryan Adams 34 anni, licenzia il suo nono full length in nemmeno nove anni di attività solista. Mi viene da sorridere se penso, chessò, ad un Peter Gabriel prossimo alla sessantina che ha pubblicato all'incirca gli stessi album in oltre trent'anni di onorata carriera. Vogliamo parlare di tachicardia per l'uno e di bradicardia per l'altro? Come in quasi tutte le manifestazioni vitali, il giusto equilibrio sarebbe da ricercare grosso modo a metà strada: ma tant'è.

Il nuovo album dell'ex Whiskeytown, tanto per mettere le cose in chiaro, si muove sulle medesime coordinate del suo predecessore che non poco aveva entusiasmato il sottoscritto. Stavolta non me la sento di dire altrettanto. Intendiamoci, non che il qui presente disco suoni eccessivamente brutto: suona però stanco, di maniera, fotocopiato. Quando non si hanno cose da dire è meglio tacere, specialmente per chi ha già detto molto: si aspetta con calma l'ispirazione e se non arriva si aspetta ancora. Non voglio pensare che Ryan Adams abbia già esaurito le pile e iniziato una lenta ma inesorabile parabola discendente assestandosi su un tedioso e patinato tran-tran da vecchie glorie, ma la strada intrapresa appare quantomeno polverosa.

A sua parziale difesa c'è da dire che il genere country west-coast non ha mai brillato per baldanza ed euforia, giacché il ritmo piuttosto meditato e cadenzato ben si presta ad artisti non più giovanissimi, target per un pubblico altrettanto maturo. Se però si eccede si rischia di scadere nella noia, nella monotonia e nella sonnolenza.

La differenza esistente fra il precedente "Easy Tiger" e il qui presente "Cardinology" si può riassumere nella differenza che passa fra lo stesso film visto a colori e visto in bianco e nero: il film è sempre quello, ma vuoi mettere? Laddove c'era un'incantevole "Oh My God Whatever Etc", qui si scimmiotta stancamente una "Like Yesterday": l'acustica traccia conclusiva "Stop" vorrebbe rifarsi a "I Taught Myself How To Grow Old", ma ne esce irrimediabilmente malconcia.  Fra le dodici tracce del lotto si salvano "Born Into A light", "Fix It" (di vago odore younghiano), "Crossed Out Name" e "Sink Ships", ma onestamente sembrano poco più che outtakes del predecessore. Pure la svisata rock and roll di "Magick" sembra messa lì un po' a caso per agitare le acque.

Il fatto poi che il Buscadero ne abbia parlato bene, mi provoca una preoccupante orticaria avallando in qualche modo la mia teoria di precoce incanutimento del Nostro. Non ci voglio credere, non ci posso credere. Ripeto, il disco non si può definire brutto e magari chi è un po' avanti con gli anni e annovera nella propria discoteca lavori di Jackson Browne, Emmylou Harris, James Taylor ed Eagles può anche trovare musica per le proprie orecchie: io pretendo di più, molto di più.

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