Ascoltare Bingham equivale ad una lunghissima chiacchierata seduto su un van sperso tra le immense autostrade sul confine tra il New Mexico e il Texas. Facciamo finta che la conversazione avvenga proprio con il giovane Ryan (28 anni) che lì è nato. La sua voce roca tradisce il suo aspetto da giovane e dannato un po' come il primo Johnny Deep.

Bingham di cose da dire ne ha. I suoi racconti sanno tanto di quell'America polverosa e on the road che fanno sognare ma che mai si concretizzano  nella realtà quotidiana.

"Roadhouse Sun" e' il quinto disco di Ryan, anche se i primi tre sono pressochè introvabili. E' il secondo inciso per la Lost Highway e prodotto dal grande Marc Ford, ex chitarrista dei Black Crowes, che presta anche il suo aiuto suonando svariati strumenti. In anticipo posso dire che questo nuovo lavoro del cantautore, giovane promessa del rock americano, è un gradino inferiore al precedente "Mescalito" che aveva fatto gridare al miracolo i puristi di americana.

Con un padrino come Joe Ely non poteva essere altrimenti. "Mescalito" ha venduto bene e il nome di Bingham ha iniziato a girare al di fuori degli States portandolo a suonare anche in Europa lo scorso anno. Ricordo un Rolling Stones, a Milano, affollato di gente, che stupì anche Bingham.

Bingham è cresciuto in strada e stare sopra a quattro assi a suonare è il suo pane quotidiano, forse per questo, sul nuovo album in copertina campeggia anche il nome della band che lo accompagna da diversi anni: The Dead Horses.

Questo "Roadhouse Sun" riprende il discorso interrotto dal precedente lavoro, aggiungendo alcune novità. Venendo a mancare l'effetto sorpresa del precedente, a colpire l'ascoltatore rimangono la voce ormai matura e i suoni sempre grezzi ed elettrici nelle canzoni piu' rock. L'iniziale "Day Is Done" non ha il pathos che aveva "Southside Of Heaven" che apriva "Mescalito" ma rimane un buon compendio di quello che il disco ci riservera' piu' avanti nell'ascolto. Brani ispirati da Dylan, come la dedica di "Dylan's Hard Rain" o "Country Road" oppure delle honky-tonk country songs come le piu' spensierate: "Tell My Mother I Miss Her So" e "Roadhouse Blues". Le chitarre ruggiscono in "Endless Ways" e "Hey Hey Hurray" mentre si fanno psichedeliche nella lunga "Change Is", vera sorpresa del disco che riconduce Bingham alla psichedelia folk dei Grateful Dead di meta' anni '70.

Insomma tra armonica, banjo e violini, Bingham passa in rassegna la musica americana dagli anni '40 ad oggi e lo fa con una produzione grezza, spoglia e poco artificiosa, che lo rende credibile. Immaginate di ascoltare il megllio della storia della musica americana partendo da Guthrie e passando attraverso Hank Williams, Cash, Dylan, Springsteen, Young, Mellencamp, Earle, Ely. Tutti personaggi di un certo peso e di una certa età (con qualcuno passato a miglior vita da molto) che forse hanno trovato un giovane in grado di portare avanti la tradizione della musica americana in modo onesto e consapevole.

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