Il 2015 ha segnato, per il sottoscritto, un importante momento di crisi per quanto riguarda la ricerca musicale. Dopo 15 anni passati a cercare sempre con interesse qualcosa che stuzzicasse l'interesse, mi sono trovato ingolfato di ascolti sciatti e prevedibili. Probabile sia colpa mia: poco tempo e poca attenzione non aiutano a capire se si stiano semplicemente ascoltando i dischi sbagliati o se realmente la qualità media si è abbassata. Inoltre il ristretto spettro di generi frequentati dal sottoscritto (eh si, mi spiace ma mai stato un umanista dei dischi, di quelli che dicono "sento tutto" per capirsi) peggiora le cose. Proprio nel momento di massima disperazione, e pronto a fare scelte drastiche (smetto di scrivere/asscoltare/comprare dischi e mi dedico ad altro) a Marzo inoltrato il 2015 ha deciso di regalarmi un disco per cui è lecito spendere qualche parola. Si tratta di “Primrose Green” del giovane cantautore dell'Illinois Ryley Walker.

Ragazzo che giunge al secondo disco nella quasi totale anonimità, ma non credo per molto. Perchè “Primrose Green” è innanzitutto un sentito omaggio ad un certo cantautorato folk profondamente imbevuto di aromi jazz e psichedelici, un disco e un autore fortemente debitori sia di Nick Drake e Bert Jansch, e quindi del folk tradizionale britannico, che dei voli senza rete di Buckley padre, il cantato nasale di John Martyn e soprattutto, se una fonte d'ispirazione primaria bisogna citarla, direi le “Settimane Astrali” di Van Morrison.

Non proprio una serie di autori e album con cui sia facile confrontarsi, ma la cosa bella è che il ragazzo ci riesce senza copiare spudoratamente nessuno dei sopracitati. Probabilmente grazie ad un timbro abbastanza personale, ma soprattutto ad una backing band fenomenale, composta di esponenti della vecchia scuola Jazz di Chicago, giovani virgulti folksters e un produttore membro di uno dei combo kraut psych migliori del momento, i Cave. Il risultato è un mesmerizzante coagulo delle influenze citate, sballottato fra fingerpicking e bluegrass duro e puro (“Griffith Buck's Blues”, “Hide In The Roses”), sentiti omaggi al Nick Drake orchestrale (“The High Road”), simil traditional che profumano di Ry Cooder (“On The Banks Of The Old Kishwaukee). Ma il meglio il nostro lo riserva quando a spalleggiarlo c'è tutta la band al completo, è lì che il disco prende il volo e riesce a portarci in altre dimensioni.

Dalla titletrack, ancora terrigna col piano a puntellare un incedere formalmente da ballata, si passa alle visioni jazzy della fenomenale “Summer Dress”, una rivisitazione jazz psichedelica del citato Van Morrison. Si continua col contrabbasso che punteggia lo stream of consciousness di “Same Minds” e l'harmonium a introdurre l'incedere felpato di “All Kinds Of You”. Per finire poi in due maelstrom che racchiudono un po' tutte le atmosfere e le influenze del disco: “Love Can Be Cruel” ora acustica, ora elettrica, perennemente jazzata e psichedelica; “Sweet Satisfaction” che si spinge ancora oltre, con una coda a base di chitarra fuzz e ritmica martellante.

Probabile disco dell'anno.

Carico i commenti...  con calma