- due once e mezzo di biscotti
- un’oncia di confettura
- mezza oncia di zucchero
- un quarto di oncia di caffè solubile
Questo è il contenuto dell’unità B-2, razione confezionata in un barattolo di latta dalla Loose-Wiles Biscuit Company di Chicago e distribuita all’esercito americano nel 1941. Pare poco, ma non lo è.
“B-2 Unit” è, al pari dell’omonima scatoletta di latta, un vademecum di ciò per cui è pensata. Infatti, se una frugale colazione sta tutta in un barattolo, il nocciolo dell’elettronica sta tutto in mezz’ora di LP.
Pubblicato nel 1980, l’anno in cui la YMO andava, pur nella notevole levigatezza sonora, sempre più assecondando la sua naturale inclinazione popolareggiante con la pubblicazione di “X∞Multiplies”, Sakamoto veniva a trovarsi ad un bivio: se nel progetto dell’orchestrina gialla nipponica si trovavano in simultanea tanto la spinta verso la direzione poi effettivamente presa dal trio quanto quella opposta, verso cioè la nuda e cruda dissonanza elettronica, non restava che imboccare quest’ultima per mappare le proprie possibilità. Questa strada, intrapresa, percorsa e conclusa interamente in otto tracce, resta — come un fiume carsico— presente qua e là nella sua intera produzione, come quel tocco di stridore elettrico strumentale posto, senza scrupolo alcuno, in mezzo a brani marcatamente sinth-pop, sino a tornare nitidamente visibile, nobilmente invecchiato come in una botte di rovere, nel testamento mancato (si spera) di Sakamoto: “async”.
Non per nulla, se “a-sync”, mancanza di sincrono, ripensa daccapo quella “Differencia” (primo brano di “B-2 Unit”, e titolo provvisorio dell’album), che — a distanza di 37 anni— rappresenta il peso di una parte della sua bilancia compositiva sia ieri che oggi, è anzitutto e perlopiù nell’album del 1980 che troviamo il peso stesso in purezza, tolto il quale Sakamoto non sarebbe più Sakamoto, ma un mero fautore di musichette.
Questo nocciolo duro di elettronica, sciupato forse soltanto dall’aggiunta in “Thatness e Thereness” (sotto consiglio di Mitaka Goto) di un cantato, che rende più riconoscibile la provenienza nippo-pop (‘80s) dell’album, lo si potrebbe tranquillamente accostare (e lo si è fatto sempre, citando "B-2 Unit") ai numerosi sviluppi dell’elettronica, a partire soprattutto dal decennio successivo. Ma qui non si tratta di individuare pionieri o precursori — chi ascolta i Kraftwerk solo perché sono precursori non mi sta evidentemente simpatico— quanto piuttosto di considerare un fatto: se “Riot in Lagos” assomiglia all’IDM o a Richard D. James, o se “Participation Mystique” sembra composta dai Drexciya, non è perché essi abbiano attinto al pioniere di turno, da osannare e porre in cima alle classifiche, quanto piuttosto perché tanto gli uni quanto l’altro sono vittima di una medesima fascinazione: quella per lo spazio che, nel suono puramente sintetico, si apre tra la musica e il rumore.
P.S. Non metto le stelline perché ritengo insensato dare voti alla musica.
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