Il suo debutto nell’83 come primo clarinetto dei Berliner portava già il timbro della stima incondizionata di von Karajan, e della contestazione “politica” dell'allora totalmente maschile orchestra berlinese che, forse a corto di argomenti, giudicarono “troppo solistiche” le sue qualità strumentali. Vale la pena ascoltarla, Sabine Meyer. È una clarinettista di una sensibilità eccezionale, istinto assoluto e una naturalezza di emissione sovrumane. Marziana è, sinceramente, la prima parola che mi viene in mente.
I concerti del romanticone Weber (1786-1826), programma d'esame di tutti i conservatori di Stato e proverbiale “scoglio” di ogni clarinettista in erba, sono tra le composizioni per clarinetto più famose, e più suonate, al mondo. Allora perché recensire queste registrazioni dell'86 e non qualcos'altro, tipo i quintetti di Mozart e Brahms, in cui tutta la stupenda cantabilità, la totale assenza di meccanicità del suo fraseggio sono lì, sfacciati, davanti agli occhi? Forse proprio perché qui l'effettiva distanza tra la sua interpretazione e quella di mille altri clarinettisti tende ad assottigliarsi, fin quasi a scomparire. Quasi. Ti fa pensare quasi che sia umana. Quasi. Se ci stai molto attento magari ti accorgi di qualche microscopica sbavatura, e sulle semicrome degli allegro sembrerebbe anche tirare il collo allo staccato, per un microsecondo. Si potrebbe anche obiettare che qualche mostro sacro ha fatto di meglio... uhm, mi viene in mente solo Karl Leister. È sempre antipatico fare confronti, e poi Leister è il guru… controllo pauroso, staccato facile facile, venerazione maniacale della partitura.
Ma, come ho detto, i confronti sono sempre antipatici. Altri virtuosi iper-cinetici fanno spesso invidia per la facilità con cui superano le difficoltà tecniche. Lei te le fa spesso dimenticare, tale è la lucidità del fraseggio, la piena rotondità del suono, la perfezione dell'intonazione. Non c'è niente di macchinoso nel suo suono, ed è strano come queste qualità riescano ad affiorare anche nel contesto di questi concerti, concepiti da Weber appositamente per l'amico Heinrich Baermann, grande virtuoso in un epoca di culto del virtuosismo. Il gusto per il passaggio difficile (il “cimento” di barocca memoria), per i contrasti forti e l’uso “beethoveniano” dell’espressione sono il pane quotidiano sia dei concerti che del quintetto, ma la tedescaccia non insiste mai sull’aspetto “pirotecnico”, riuscendo (specie nel quintetto) a sorvolare agile sulle acrobazie tecniche, per poter esplorare l'infinita gamma delle qualità vocali del clarinetto. Mai sopra le righe, mai forzando la mano, mai. In questo le dà una mano anche l'orchestra della Staatskapelle di Dresda, che suona agile e composta, pulita anche nelle sfumature, nonostante i tempi concitati e “metronomici”, ormai consueti nelle registrazioni di questi concerti.
In ogni caso questo non è il suo album migliore. In particolare l'arrangiamento orchestrale del quintetto forse aggiunge qualcosa alla drammaticità “romantica” della composizione, ma perde molto della dimensione cameristica dell'originale. Ad essere fiscali si potrebbe anche obiettare che la registrazione un po’ ovattata non è proprio il massimo. Comunque… cazzate, ogni sua esibizione è unica. Sentite come suona Mozart, o la registrazione del quintetto 115 di Brahms, o qualcosa del suo Trio di Clarone. È proprio brava.
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