Mai titolo fu più azzeccato, una lenta discesa dolorosa, introspettiva, sensuale, tesa ad un percorso di conoscenza interiore, di mistica spiritualità e forse anche di massima redenzione (parafrasando l'Alighieri) perchè tutto ciò possa essere poi tramandato da "mente che non erra".
Ed è qui che i nostri Sadness non hanno fallito, a discapito di quanto si possa pensare: la mancata ribalta mondiale con i suoi riconoscimenti, il successo mai neanche lontanamente sfiorato, tutto ciò nulla toglie al valore in senso assoluto della loro opera, anzi gli dona quel alone di fascinazione ed oblio (direi nell'eccezione francese del termine) che suggella alla perfezione l'unione fra l'ascoltatore intraprendente/coraggioso ed il combo svizzero (patria di efferatezze musicali senza pari).
Chi ha la fortuna/fegato di ascoltare i Sadness, nel bene o nel male non li dimenticherà più. Ed è questo lo spirito che muove la loro arte.
E' altresì molto difficile il lavoro del recensore che si pone l'obbiettivo di descrivere agli eventuali lettori cosa sia questo "Danteferno": i termini di paragone musicalmente parlando non rendono bene l'idea, ma volendo in ogni caso affibbiare delle etichette, allora avantgarde metal è il temine che meglio si confà al caso nostro, cioè qualcosa che deve le sue origini ad un doom/gothic deforme ma dalle atmosfere cerebrali, passando attraverso le elaborazioni sonore degli imprescindibili Celtic Frost di "Into the pandemonium" (per quanto riguarda la componente prettamente metal), fino ad inabissarsi nelle perdizioni elektro dark dei Die Form (per la sensuale morbosità della quale questo lp è intriso).
Del precedente "Ames de Marbre" [1993] (un gioiellino solo per menti molto aperte) è andata perduta la tendenza a soffermarsi troppo su componenti chiaramente di marca dark/gothic (che a volte ricordavano i primissimi lavori dei Dead can Dance), mentre si è mantenuta la componente vocale abbastanza rauca d'ispirazione death metal.
Quindi si può affermare che le idee del debut album hanno trovato una definitiva maturazione su "Danteferno": atmosfere a volte tribali, più spesso tragicamente oniriche, rudezza doom/death e una insana passione per l'oscuro si fondano sapientemente per dare all'ascoltatore il senso di un viaggio a ritroso nella mente. Dalle agghiaccianti e spettrali vocals femminili dell'opener e title track (magnifica song in bilico tra sperimentazioni doom e gothic metal di alto lignaggio), passando per la romantica e funerea "Delia", soffrendo all'unisono la morbosità di "Below the Shadows", fino al melodrammatica e sensuale suite "Aphrodite's Thorns" (nella quale la prestazione vocale della guest singer Christina Christine risulta quasi eccitante e mai sopra le righe), tutto di questo secondo full lenght parla di originalità e ricercatezza oltre le barriere delle etichette musicali.
Curiosa nota di costume: alla realizzazione del suddetto album ha partecipato anche Sua Malignità Martin Eric Ain (se non sapete chi è fatti vostri) in veste di produttore/consigliere e questo ci aiuta a capire un po' meglio il perché dell'aurea così cupa che pervade l'intero lavoro.
In conlusione due note tecniche: la registrazione nel complesso è buona, ogni componente musicale trova il suo equilibrio, forse però, avendo magari un budget maggiore a disposizione (la casa discografica dell'epoca, la nostrana Godhead, è successivamente fallita) si sarebbe potuto rendere i suoni della batteria un po' più professionali e dare maggiore profondità alle chitarre ritmiche.
Per il resto vi consiglio caldamente di cercare questo "Danteferno", sono sicuro che non vi deluderà.Carico i commenti... con calma