Violenza, brutalità, tecnica e ingegno. Atmosfere horror ed episodi di ferocia, conseguiti da un elaborazione drasticamente techno–death.
Ecco come prende forma il terzo lavoro della band californiana uscito nel 1992, confermandosi come uno dei lavori più significativi della scena. Analizzandolo in maniera profonda e confrontandolo con i due precedenti lavori, ci rendiamo conto che "A Vision of Misery" comprende meno sfumature, ma allo stesso tempo gode di una complessità tecnica maggiore. Il sound, epilettico e violento, offre spunti horror, conducendoci in un agghiacciante incrocio tra terrore e realtà. Il death metal iniziale si unisce a ritmi e velocità trash, con qualche rievocazione jazz e fusion. La partecipazione di Steve Digiorgio all’album dei Death "Human", arricchisce la tecnica, offrendo riff ancora più cadenzati e ricercati. Difatti nell’album possiamo trovare punti di contatto con il lavoro di Schuldiner, anche se con uno stile più grezzo.

Il bassista la fa da padrone, grazie a numerosi interventi solisti e a linee di basso splendide e complicate. L’incredibile maestria di Steve incomincia a farsi conoscere nel mondo metal, sancendo il verdetto di “bassista prodigio” e di promessa futura. La line –up, inalterata dall’esordio in poi, vede oltre a Digiorgio, il cantante Darren Travis, il chitarrista Rob Moore e il batterista Jon Allen. Proprio il vocals ricrea atmosfere sadiche e malvagie, emettendo urla che sembrano provenire direttamente dall’inferno, accompagnate da spasmi rabbiosi e gemiti laceranti. Moore alterna riff articolati, dotati di grande velocità e potenza, ad assoli schizofrenici. Allen da parte sua non sta a guardare e coordina le composizione, entrando in maniera sfondante in alcuni pezzi, grazie anche al doppio-pedale.

Episodi storici sono "Through the eyes of greed" e "Facelift", sostenuti da uno screaming di Travis inaudito. Alla posizione numero cinque troviamo "Throwing away the day", contenete la carta d’identità di Digiorgio. "Valley of dry bones"e "Slave to misery" marciano compatte e veloci, fermandosi a tratti per enfatizzare l’abilità dei quattro, per poi ripartire in modo ancora più battente.
I Sadus schizzano letteralmente tra un tempo e un ritmo, variando la dinamicità, la violenza e la complessità, presenti in un album, tecnico quanto mortale, da ascoltare tutto d’un fiato.

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