Dimenticate tutto quello che avete sentito dire in giro, perchè la Sardegna non è un isola.
La Sardegna è un vortice, universale. Un vortice di silenzio e al contempo di rumori.
Una fotografia ignorata sulla cartina geografica, volutamente o non, da tutti.
E non solo dalla distante penisola italiana, ma dall'intera Europa, dal mondo.
Tal volta, dai suoi stessi abitanti.
Da più di vent'anni, l'ho sempre considerata una cartina al tornasole. Un saggio alla fiamma del restante quantitativo (e qualitativo) dell'umanità. Una specie di specchio, che cerca di osservare con il suo iride antico e talvolta atrofizzato un restante mondo di per sè condannato ad implodere non consapevolmente. Ritengo debba aver pensato la stessa cosa Salvatore Mereu, regista di "Ballo a tre passi" (2003, Eyescreen), che con questa oramai datata pellicola ne divideva l'essenza in quattro episodi dall'alto significato simbolico.
Primavera, Estate, Autunno ed Inverno.
Donando udito, olfatto, sguardo e tatto a quattro personaggi rappresentativi del diversificato cammino della vita di ogni essere umano (infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia), Mereu costringe lo spettatore ad assaporare una pietanza che volenti o nolenti si è prima o poi costretti ad addentare: l'esistenza. Tutto ciò avviene in questo caso attraverso l'ingenuità di un ragazzino, disposto a tutto pur di evadere da una maestosa prigione di monti e campagne dorate, dove il mare, diviene l'unico ed il solo strumento di libertà. Di eterna proiezione verso l'infinito. Di speranza per un futuro ancora da scrivere.
Di fuga.
Lo stesso Mare, che nel secondo episodio di questo lungometraggio vedrà emergere le prime, inevitabili contraddizioni di una terra resa spesso schiava di sé stessa, quanto dell'irreversibile avanzamento di un mondo ad essa estraneo: quello degli ombrelloni, dei lounge bar, del divertimento 'a consumo' e della spensieratezza economica e sessuale. E' il caso di Michele, giovane pastore ed emblema della innata resistenza verso un mondo diverso, a tratti epilettico, incomprensibile ed estremamente lontano dall'intima seduzione che la natura concede ai suoi figli assieme ad altrettanta ininterpretabile violenza. In un momento della vita come quello in cui la giovinezza si fa d'improvviso età adulta, scoordinata e grottesca, tutto prende una dolorosa piega nuova, concludendosi con la fine di un ciclo che sembrava essere interminabile.
Niente di tutto ciò.
Subito dopo, ecco arrivare l'autunno: con esso, la saggezza e la maturazione tramuteranno la ragione in fede cieca, sorda e muta, dinnanzi al sensuale richiamo del felice passato. In questo caso, visto attraverso gli occhi di una giovane suora che torna alla propria comunità, il sentiero che si percorre impone dubbi, incertezze, riflessioni e rimpianti. Cose che avremmo voluto fare, e che non abbiamo fatto. Cose che avremmo voluto dire, e che non abbiamo detto. Strade che abbiamo serrato, e che avremmo dovuto percorre per garantirci una maggiore felicità. Tutto questo disegna allora un quadro oscuro, rendendoci schiavi del conforme stato di grazia che tale compimento esistenziale pone come unica alternativa.
La dolorosa accettazione.
Infine, l'inverno della vita: la vecchiaia.
Tempo di silenzi asettici e dilatati entro un panorama estraneo a quello della nostra esistenza precedente, dove tutto è diverso da quello in cui ci si è formati. Dove ogni cosa è estranea ed estraniante, e dove a consumarsi non è soltanto la materia o la carne, ma anche quella speranza perduta nei decenni precedenti. Ma soprattutto, dove l'unica possibilità di salvezza resta la dolorosa e spregevole rievocazione di ciò che più non è, attraverso la simulazione e l'illusione di una appartenenza ormai perduta, seppure amata con ardore ed infinitamente inseguita, invano.
Mi permetto di consigliare a tutti quanti, senza alcun rancore, di guardarla ogni tanto, quella traccia di terra a forma di sandalo in mezzo al Mediterraneo. Non per ricordare le estati passate, o quelle che si vogliono programmare. E nemmeno per evocare mari cristallini e vegetazioni rigogliose e selvagge.
Solo per un motivo. Quello di ricordarci che quella che 'indossiamo' è la nostra vita.
E che giorno dopo giorno, passa, senza farci tornare indietro.
“Sorte currede, e non cuaddu”.
(E' il destino a correre, non i cavalli).
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