"There is so much beauty in the world", recita la frase chiave di uno dei film più celebrati (e a mio avviso sopravvalutati) dell'ultimo decennio.

Già, la bellezza: nel mondo ce n'è tanta. Non sempre però è facile scinderla dal caos della modernità, catturarla e rappresentarla con ordine e rigore in forma artistica: e "American beauty" ne è l'esempio più lampante. Paradigma di un cinema che mette in scena un abusato e ormai manierato declino social-borghese per ovviare al proprio vuoto estetico e culturale, risolvendosi in una tensione emotiva amorfa e in snodi narrativi in alcuni casi persino dozzinali.

Il calvario di Lester (interpretato da Kevin Spacey, magistrale benché soffocato da una sceneggiatura zoppicante) si snoda sulle classiche coordinate dell'alienazione dalla società capitalista, messa in scena nell'opulenta provincia americana al termine del babilonico decennio clintoniano. Tale via crucis è rappresentata in maniera formalmente impeccabile, e tutto sommato accattivante da godersi in poltrona: gli anonimi ingranaggi di un sistema produttivo omologante e opprimente, gli affetti familiari liquefatti per incomunicabilità reciproca e plastificati all'inseguimento del dio denaro (esemplare il personaggio di Carolyn, in pratica una caricatura di Hillary Clinton), la ricerca di una "fuga dalla realtà" nel pusher amico della figlia, il marine omosessuale represso tutto casa e famiglia che fa finta di abbeverarsi alla retorica dei film del giovane Reagan e il cui tormento spezzerà l'equilibrio del film. Niente di nuovo sotto il sole, ma a grandi linee funziona.

L'agghiacciante problema di "American beauty" sorge quando un regista che si professa intellettuale di sinistra come Sam Mendes (le cui successive, scialbe prove hanno per fortuna giustamente ridimensionato) mette in scena ciò da opporre alla crisi di mezza età del maschio borghese: una Lolita come strumento di rigenerazione spirituale. Perbacco! Davvero terribile è il corto circuito operato dal frangente in cui - sulle note di una peraltro magnifica "Don't let it bring you down" di Neil Young rifatta da Annie Lennox - Lester rinuncia al suo sogno erotico scoprendo come la ninfetta che infestava il suo immaginario, dopotutto, era una brava ragazza. E se non lo fosse stata ? Se la sarebbe portata a letto ugualmente, invece di ritrovare la pace dei sensi e la consapevolezza di ciò che davvero importa (lì sicuramente il temibile Muccino de "L'ultimo bacio" avrà escogitato slogan come "la vera rivoluzione è la normalità", e solo per aver ispirato simili derive italiote Mendes andrebbe lapidato) pochi attimi prima di venire ucciso?
A quel punto due sono le vie di uscita. Lester che diventa martire di ciò che la società ha represso e che ritiene egli abbia riscoperto (la società ha represso l'omosessualita, Lester ha scoperto le ninfette). Altrimenti, la scelta estetica: Ricky che vede la bellezza ovunque, anche nelle cose morte, indugiando nell'estatica contemplazione di un cranio maciullato.

Davvero tutto qui? Questi sono problemi piccolo borghesi con soluzioni piccolo borghesi, egoiste, meschine, e non basta un tocco di perversione per épater les bourgeois. Vogliamo fare un cinema sociale e culturalmente motivato? Perfetto. Ma i problemi sono ben altri, e le risposte devono essere ben altre.

 

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