Abituati ormai ai film "grossi", se non giganteschi, bigger than life,(riguardo alla durata, in primis, ma anche come budget e smisurate ambizioni), oppure a opere di enorme e insostenibile portata emotiva, la visione di Empire of Light ti restituisce quasi la sensazione di un film leggero come l'aria. Un film di grazia. Benché le sue tematiche siano in realtà molto drammatiche e complesse, come depressione, razzismo, sentimenti. Eppure la bravura di Mendes come narratore rende questo lavoro sorprendente e positivamente leggiadro, infine assolutamente positivo seppur dopo varie traversie dei due protagonisti principali. Un film emozionante e sincero, addirittura poetico, che non racconta nulla di nuovo ma non scade nel derivativo nemmeno nel suo omaggio al cinema, in un periodo dove gli omaggi al cinema sbucano fuori dalle fottute pareti.

Il cinema per Mendes è fuga e riparo, tramite la luce; la proiezione, l'illusione del movimento che è illusione della vita stessa. Una vita alternativa. Cosa che può essere consolatoria ma sempre di immenso aiuto. Riparo dalla solitudine - nonché dalle delusioni amorose - come in Allen e Chazelle, oppure luogo di approdo sicuro, in ogni caso, rispetto alle brutture del mondo esterno, della società e dell'esistenza.

Life is a state of mind, ci diceva Hal Ashby nel suo capolavoro Being There (Oltre il giardino). E Mendes ce lo ribadisce a sua volta, attraverso una meravigliosa citazione diretta dello stesso film con Peter Sellers, che alla fine camminava sulle acque, lui che viveva come in una dimensione sospesa rispetto al proprio mondo circostante. In un insieme di ingenuità e inconsapevolezza, che veniva scambiata per saggezza rendendolo affascinante e attraente agli occhi femminili. In realtà Chance il giardiniere era dotato della purezza di chi non coglie ogni aspetto della propria realtà, e pertanto vive leggero, sulle acque, appunto. Ed è come questo stesso nuovo film di Mendes camminasse sulle acque, lasciando infine una grande dolcezza e tenerezza e un filo di commozione, come in un moto di fiducia nell'umanità e nella vita nonostante tutto.

Empire of light è un piccolo film dolceamaro sull'amore tra due reietti e sulla rinascita, un film che in un certo senso fa propria la lezione sulla circolarità della natura. In cui tutto muore per poi rinascere non rinunciando però ai segni di tale processo.

Anche se, forse, e purtroppo, determinate brutture, ipocrisie e difficoltà faranno sempre parte delle varie complessità del mondo, ci sarà sempre qualcosa per cui alla fine sorridere. Il cinema, con l'emozione e la magia del grande schermo che porta con sé, è una di queste cose. E lo sarà per sempre, almeno finché questa magia resterà preservata all'interno di quel Tempio che è la Sala. Con le luci spente e il mondo reale - ma in fondo, e torniamo sempre alla domanda chiave di Morpheus, cos'è "reale?" - che per un po' scompare.

Nemmeno a dirlo, Olivia Colman è straordinaria come sempre. E vedere un'opera filmata, pennellata, dipinta da quell'immenso artista che è Roger Deakins è ogni volta una gioia per gli occhi. Dopo Revolutionary Road - inarrivabile -, Empire of Light è il film di Mendes che ho amato di più. Proprio grazie alla grande abilità narrativa di Menses, che forse non sarà un "autore", ma senza dubbio sa come il cinema sia.

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