I poco conosciuti Samael, svizzeri, sono una band che richiederebbe un'intera enciclopedia per essere descritta appieno e nel migliore dei modi. Tutti i pezzi della loro discografia, partendo dai seminali e violenti "Wokship Him", "Blood Ritual" e soprattutto "Ceremony of Opposites", sono uno l'antitesi del successivo, e non è uno scherzo.
Additati come i "cattivi" e i "blasfemi" di sempre per via della loro catacombale e asfissiante attitudine alla musica di genere Black Metal, con questo "Passage" si trovarono, appunto, ad operare un "passaggio" propriamente detto, tra le origini e la contaminazioni future che sfoceranno poi, nel mastodontico e osannato "Reign of Light", di cui, in questo album, già si respirano a pieni polmoni le atmosfere malate, claustrofobiche, malvagie e senza spiragli del progetto Samael.
Il risultato è, senza altri giri di parole, davvero strabiliante. I Samael sono stati una delle poche band di sempre ad evolvere il proprio suono senza svendersi troppo, ma piuttosto incupendolo e rendendolo sempre più estremo, pur non mostrandolo platealmente, pur non facendolo filtrare chiaramente nei solchi granitici di questo lavoro che, a detta di chi scrive, senza dubbio è un esempio teatrale e mai povero di idee, per quanto riguarda le sensazioni e le vibrazioni negative che emana.
Succede che ascoltandolo ci si trovi subito a disagio, pur senza essere per forza aggrediti da un muro di suono e violenza fine a se stessa. Niente di tutto questo: i Samael sono perfidi e atroci, ma lo sono con gran classe e con straordinario piglio compositivo, come, usando un'antifona, i primi Slasher Movies degli '80 dove di sangue ne scorreva pochissimo ma tutti i personaggi, tutte le inquadrature erano permeate da quel senso malato e pauroso che tanto riusciva a sbigottire.
Anche la scelta del percorso evolutivo che i Samael hanno operato (quello "Industrial", tanto per intenderci) si presta bene all'intento che si prefigge, dunque.
Impressionare e procrastinare senza però darlo a vedere, ma anzi avvolgendo il tutto in spericolate e sincronizzate parti sonore che si muovono in maniera altalenante tra incubi tecnologici e amorfe luci bianche da sala operatoria e cosmogonie stellari profonde e vertiginose, paesaggi violentati dalla fredda luce lunare e pianti e sofferenze e rabbia senza confine, che serpeggiano pericolose in queste undici canzoni, da ascoltare obbligatoriamente di sera, chiusi in casa, magari al buio, magari leggendo qualche racconto di H. P. Lovecraft (che, tra l'altro, è anche una grande fonte d'ispirazione per la stessa band).
E non avrete scampo.
Lo capirete già dalla prima traccia "Rain", con i suoi giri di chitarra rocciosi e sistematici che cedono, seppur non implodendoci sopra, alle tastiere che invece di alleggerire l'atmosfera la rendono più cupa e nera come la pece. Lo dico in tutta sincerità, se anche tutto il resto di questo album fosse da buttare, solamente per merito di questa canzone meriterebbe d'essere acquistato.
La drum-machine sarà stata programmata da un qualcuno abituato a lavorare con un frantumatore tanto è potente e viscerale, la voce di Vorphalack che sembra intonare evocazioni a qualche divinità dal caos universale, la chitarra di Xytras che scaglia fendenti su fendenti noncurante dell'oppressione sonora e della desolata terra ghiacciata che si porta dietro, e tutta quanta la sezione musicale in genere, s'accende di un fuoco scottante seppur glaciale, che, a chiudere gli occhi, violentemente scaglia l'ascoltatore in purgatori mai immaginabili, seppur percepibili.
Purtroppo, anzi, per fortuna, di brani validi e coinvolgenti non c'è n'è solo uno, ma bensì tutti, dai diversi aspetti che mostrano, sono di altissimo ed elegante livello; e questa non sarebbe una recensione di un album destinato a fare la storia della contaminazione sonora se non citassi almeno, "Angel's Deacy", "Jupiterian Vibe" e "Liquid Soul Dimension". Ma è solo per dovere d'informazione che le nomino, visto che il materiale, lo ribadisco, ha uno spessore impressionante ed enormemente affascinante in tutta la sua interezza.
Posso parlare in maniera rappresentativa, e posso dirvi delle atmosfere caustiche che, per esempio "Jupiterian Vibe" evoca, con il suo attacco tribale e la nettezza delle immagini poi, o della precisione inumana con cui viene eseguita "The Ones Who Came Before", o dell'ariosità melodica e ringhiante di "Moonskin", oppure, per finire, della fuga spaventata e annichilita della vittima predestinata, al chiar di luna, che scappa terrorizzata ed inseguita dal serial killer di turno, come chiaramente e magnificamente si riesce a percepire in "A Man in Your Head". Potrei dirvi di tante altre cose, ma l'enciclopedia è tediosa da leggere, e allora posso solo consigliarvi di procurarvi questo gioiello, ascoltarlo per un pò, metterlo da parte, ascoltare altro che si accosti a questo, e poi riprenderlo, tanto per umiliare almeno un migliaio di altre band, tutte impegnate a credersi "cattive" e "blasfeme", ma che non hanno nemmeno un milionesimo della genialità, della perspicacia, della complessità dei testi e delle doti tecniche dei Samael.
L'Inferno non è più alle porte.
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