Santigold, ei fu Santogold. Abdicò quel prorompente nomignolo in seguito alla rappresaglia legale di un oscuro filmmaker, Santo Victor Rigatuso, autore di uno sci-fi movie, i.e. Santo Gold's Blood Circus, ignorato da ogni onesto scibile.
Santigold è un duo, diciamo così, di Indie Electronic formato dall’affascinante frontwoman Santi White e dal suo coautore, coproduttore, John Hill. Un duo sbilanciato in favore della White, più smaliziata che vulnerabile, nativa di Philadelphia.
L’esordio fu nel 2008, tra Urban-Pop e Alt-Rock, una sorta di crestomazia da un’ampia e ragionata contaminazione di generi: (Power) Pop, Dub, Punk-Rock, Ska Pop, Hip-Hop, Grime, House, Reggae e Psychedelic-Rock. A produrla, il team Diplo e Switch, della ben più celebre M.I.A., sua inevitabile pietra di paragone. In più la collaborazione col session musician Chuck Treece dei Bad Brains.
A quattro anni di distanza, l’atteso seguito, “Master of my Make-Believe”, sull’asse Indie Electronic, Alt-Rock, Alternative Dance. Fisionomie Indie che vorrebbero trascendere il mainstream ombroso e nullo. La “signora Bianchi” ha dichiarato, in maniera cogente: «Io non faccio R&B, al contrario di quanto fa la maggioranza delle altre fanciulline brune». Bastantemente con ragione.
La White, che co-autografa tutti i titoli, sembra comporre un io accogliente, con canzoni che hanno un senso elegante della costruzione. E vanno fino dove possono. Tra illusioni lungamente desiderate, da dirimere, e inni che aggrovigliano un vivido sogno, ma come in uno specchio frammentato.
Ci presenta così il suo ego, solo che, più che con poesia, lo fa con beats afro, pulsioni e spinte electro, surrettizie chitarre punk, bassi dub infossati, sequenze Hip Hop, Reggae pastorizzato, e, soprattutto, sintetizzatori wave, agognanti gli anni 80. Già, strano a dirsi, ma la matrice Wave è un po’ la chiave di volta, l’essenza della proposta di Santigold, pur travestita generosamente da Hip Hop. Tra l’altro, la White ha affermato che gli Smiths sono il suo gruppo preferito. Tuttavia gli Smiths, in questo caso, sono come il pensare per non essere meno di un pensiero. Della band di Manchester non v’è traccia nel calderone multistilistico e multiculturale dell’artista della Pennsylvania. C’è invece largo spazio per gli etnicismi, un po’ inclusi nelle trame principali, un po’ giustapposti.
Troppo ampio, troppo iridato, troppo mobile. Lo stile Santigold, allora, scorre come un fiume sotterraneo. Le tracce sono eterogenee, ma coese. C’è un senso algido della forma. Splendono un po’ l’artificio, un po’ la melodia flebile, ma espansiva. Colori come di polvere al sole. Freddi. Ma attraenti.
Curioso e paradossale il pendolarismo tra le sale di registrazione di mezza America e di tutta la California, che conducono ai 37 minuti dell’album. Così come la pletora delle collaborazioni: tra i musicisti, Nick Zinner (chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs), Dave Sitek (dei Tv on the Radio) e Greg Kurstin (dei The Bird and the Bee e produttore di Beck e Flaming Lips). Tra i produttori, pre e post, oltre a lei stessa ed Hill, richiamiamo Diplo, Switch, Boyz Noise, Buraka Som System, Q-Tip, e … meglio fermarsi qui.
Il tema del disco, euristico, a detta della White è «la facoltà di ciascuno di crearsi la propria realtà». In questa epoca liquida ok, altrimenti avremmo potuto parlare della capacità di ciascuno di fabbricarsi il proprio destino (“Homo faber ipsius fortunae”).
Più semplicemente, l’opera risponde alla necessità di essere attuale ed inattuale al contempo. L’attualità iperrealista dei suoni, l’inattualità delle tessiture. Delle combinazioni. Ecco allora puntellati qua e là, la nascita di uno sguardo, o di una parola, il loro corso e la conclusione. Parte di un universo rozzo, asfittico, disilluso, in cui cercare la propria liberazione. La colonna sonora di una quotidianità underground. Certo, un odore chiuso, umido. Un velo di cecità mondana; un teorema di vite vissute febbrilmente, “street-smart”.
Non mancano naturalmente:
«Ay, Ay, Ay, Ay …
Awwww …
Oh-Ah, Oh-Ah
Ya Ya Yo
Oh La La La La La La
Hey, Hey, Hey, Hey, Heya
Ha, Ha, Ha, Ha, Ha.
E un bel “Tick Tock, Talk That Shit Non Stop” (In “Big Mouth”)».
Tra i brani appunterei i primi tre.
L’iniziale “GO!” una filastrocca ossessiva e concitata, simile ad una corsa tra gli spasmi. Si avvale dei singulti effettati di Karen O, la cantante degli Yeah Yeah Yeahs, e di un sample scalpicciante tratto da “Joyo Can You Hear Me part 1” addirittura dei The Visitors.
“Disparate Youth” è davvero un bel singolo. Una melodia turbata, ferinamente accattivante, graffiata dai ronzii disturbanti della chitarra elettrica di un pretestuoso punkster.
“God From The Machine”, uno scuro mantra con percussioni petrose, taglienti; una imperiosa marcia Fusion a sugellare un trittico iniziale compatto, che quasi ci farebbe ipotizzare il capolavoro, che –comunque- il seguito, per quanto valido, non può confermare.
Aggiungiamo “The Keepers”, brano di denuncia, lontanissimo discendente di “Volunteers” dei Jefferson Airplane. Prende una linea melodica da "Little Red Corvette" di Prince ed un verso dai Talking Heads. Una melodia orecchiabile, solare, per un testo poco rassicurante: «We’re the keepers, while we sleep in America our house is burning down».
Ecco Santigold, in sintesi: poco appariscente icona femminile, talentuosa, canto piacevole, soddisfacente, non abbacinante, sottili abusi di falsetto, ma provvidi.
Stile eccedente, eccentrico, reietto dall’R&B modaiolo, che lascia intravedere ancora ampi margini. Il suo terzo lavoro, uscito nel 2016 (a seguito di un altro quadriennio di gestazione!), affrancandosi dalla patina Grime ed Hip Hop, propenderà per una rinnovata cifra, per un fluido roseo etno-wave-pop.
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