Questo per tutti coloro i quali hanno cercato di uccidere lo spirito del Black Metal; per tutti quelli che credevano di poter riuscire a spegnere una volta per tutte la Nera Fiamma; per gli illusi che, nella loro stoltezza, cercano di edificare la lapide del genere più estremo mai esistito, incidendovi la data “10 agosto 1993”.
A tutti costoro questo album può essere dedicato, come il martello che, nell’anno 2003, si abbatté dalla Finlandia su tutte le loro assurde speranze. Un martello impugnato da un gruppo allora semisconosciuto, ma le cui credenziali di partenza erano ottime. Le profondità underground erano infatti già state scosse dal demo “Heralding Breath Of Pestilence”, e dal primo album, la cui produzione era stata limitata a sole 500 copie, “Tyranny Returns”. E, d’altra parte, di meno non ci si poteva aspettare, considerati i precedenti dei membri del progetto. A parte il batterista Horns, al suo primo impegno professionale, ad occuparsi di voce, chitarra e basso furono Shatraug e Torog, membri rispettivamente di Horna e Behexen, due dei gruppi più affermati della scena scandinava.
Miscelando sapientemente atmosfere ferali e gelo nordico, furia rovinosa e una malinconia sognante, odio profondo e desolante misantropia, i Sargeist diedero i natali a “Satanic Black Devotion”, ovvero uno dei capitoli migliori dell’odierna storia del Black Metal. La peculiarità delle composizioni non sta nell’innovazione dei canoni tradizionali, bensì in una loro studiata reiterazione e reinterpretazione, a partire innanzitutto dai testi, scevri dall’impegno ideologico o filosofico comune a molte bands moderne, e incentrati sulle impressioni riportate dall’ interiorità malata e depressa degli autori a contatto con il freddo Nord. Per quanto riguarda gli accorgimenti artistici, i Sargeist estremizzano la ricerca della coesistenza fra furia e melodia, arrivando ad affiancare blastbeats e parti acustiche, in una singolare soluzione dai connotati depressive, ed esasperano la concezione di voce come copertura, propria del BM finnico, tanto che in alcuni pezzi, il ritornello è costituito meramente da accordi di chitarra, la cui espressività sostituisce perfettamente il cantato.
L’apertura di questo capolavoro è affidata a “Preludium”, intro dagli accenti plumbei e opprimenti, che hanno il compito di creare quell’atmosfera in cui la prima traccia “Satanic Black Devotion” si inserisce perfettamente. Una batteria frenetica, in cui sono facilmente riconoscibili connotati che molto devono al true norwegian, accompagna un riff funereo, dal sapore depressive, che si ripete per alcuni giri in un crescendo di cupezza. E’ l’inserimento vocale a coronare perfettamente questo incipit: uno scream tirato, classico ma affascinante, avvolto in un’eco maligna, recita la sua morbosa nenia esaltando con la sua altezza il cupo rombo intrecciato di basso e chitarra, che modula la sua tenebrosità con cambi di riffing semplici ma frequenti, spasimanti nell’arrivare all’apice emotivo del pezzo.
La voce ammutolisce: a cantare è l’ululato del basso, che scandisce con i suoi lugubri, frenetici rintocchi, il malinconico arpeggio della chitarra. Lo stile sfoggiato da questa ottima opener rimane invariato con i pezzi successivi.
Solo in “Glorification” la struttura musicale subisce un’alterazione in senso maligno, confermata in “Panzergod”, e culminante nella violenta “Black Fucking Murder”. Non c’è introduzione per questo pezzo, la sua incontenibile furia non ne consente. Uno scream graffiante si sovrappone al velocissimo blastbeats nel dare risalto ai funebri, ossessivi giri di chitarra, che sfociano quasi subito in un ritornello brutale, stavolta accompagnato dalla voce, che ne è protagonista, e che non permette ai riff, dal taglio minimale ma melodico, di rendere meno angoscioso il pezzo. La sequenza ritmica riprende un ritmo altissimo, dalla struttura uguale a quella dei primi secondi della canzone, ma varia quasi immediatamente, senza accompagnamento vocale, producendosi in una cavalcata chitarristica semplice ma fortemente emotiva, i cui spiccati accenti nostalgici sembrano cercare di sfilacciare la sensazione d’oppressione che permea l’intero pezzo, riuscendo solo a farne risaltare la cupezza. La track si chiude con una fortissima accelerazione che non lascia spazio a delicatezze musicali.
Dopo questa superba traccia si potrebbe credere che i Sargeist abbiano dato il loro meglio, e che la successiva “Sargeist” sia solo un pezzo di contorno. Vi sbagliate. E’ infatti qui che la potenza espressiva del gruppo tocca il suo struggente apice, con tonalità black depressive, che pure nulla hanno da invidiare ai Darkthrone di “Transilvanian Hunger” in quanto a integrità dei canoni tradizionali. Il riff d’apertura possiede una carica malinconica incredibile, pur serbando intatta la sua estrema violenza, su cui si inserisce la voce, maligna come mai prima, il cui eco sembra giungere da un altro mondo. La batteria sferza senza pietà lo schema sonoro con una martoriante scarica di blastebeats, dettando legge sui cambi tempistici, ai quali le sei funebri corde di Shatraug rispondono con soluzioni plumbee in crescendo, preludio a quello che mi sento di definire uno dei migliori passaggi chitarristici della storia del Black Metal. La voce è muta. Un arpeggio ferale, commovente nella sua decadenza allenta i toni, evocando con magistrale potenza un mortale gelo, uno sconforto sanguinante, un dolore insopportabile, un odio devastante. E mentre ancora gli echi di questo sublime intreccio, troppo corto per essere pienamente gustato, mordono i sensi, l’incontenibile ferocia della batteria spezza la struttura musicale, restaurando il riff iniziale, che si ripresenta ancora più feroce, ancora più disperato. Uno scream crudele si accanisce sulla parte strumentale.
La lugubre successione dei toni si produce nuovamente in tetre, raggelanti evoluzioni, fino a raggiungere di nuovo ciò a cui la melodia stessa, con il suo grido, anela. Ancora il superbo ritornello, ancora un viaggio malato nei più reconditi meandri della mente in cui odio e dolore si annidano, ancora un’intensità troppo breve, che lascia alla violenza dello schema musicale un ascoltatore stordito. Il percorso si ripete, ma laddove le chitarre hanno l’ultimo, sibilante spasimo, che l’udito crede preludere al ritornello, si inserisce una struttura cadenzata dai lugubri rintocchi della doppia cassa, su cui un riff estenuante, ossessivo, si snoda trascinando una voce febbricitante, in un’atmosfera di mortale desolazione. L’accelerazione che si inserisce su un brusco scream, che sembrava non poter nascere dal precedente sibilo, è inattesa, agghiacciante. L’anelato arpeggio irrompe, furente e malinconico, arricchito da note acustiche che ne ornano le amare sfumature. Esplicarne l’effetto è impossibile. La successiva, rabbiosa accelerazione sembra giungere da una lontananza di secoli.
“Sargeist” si chiude così, investendo con il suo alone funereo ogni cosa.
“...through sadness and depression I awoke in the stone-cold grave...”
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