Ci sono gruppi che hanno fatto la storia del Rock senza mai rimanere sotto i riflettori del successo e del grande pubblico. Ci sono gruppi che hanno inventato o contribuito all’evoluzione di generi musicali rimanendo sempre coerenti con se stessi e con il propri ideali (musicali e non). Ci sono gruppi che hanno evoluto e volutamente cambiato il loro modo di fare e pensare la musica senza mai essere condizionati, nel farlo, da pensieri o desideri di commercializzazione e senza mai venire attratti, nelle loro scelte di mutamento, dal “Dio Denaro”. Ci sono gruppi che hanno sopportato e resistito a mode musicali (grunge, britpop etc...) e disgrazie personali (la prematura morte di Chris Oliva R.I.P.), che avrebbero abbattuto anche gli spiriti più temerari, senza esserne totalmente influenzati e, anzi, trovando in esse uno spunto per continuare, con ancora più convinzione, la loro storia di uomini e artisti. Ci sono gruppi (e spero ci saranno sempre) che rispecchiano appieno tutte le sopraccitate caratteristiche e che mi rendono orgoglioso di ascoltare un certo tipo di musica... Personalmente credo che l’esempio più calzante di questo genere di gruppi siano, senza ombra di dubbio, i mitici Savatage.
Un gruppo che, dopo aver superato infinite difficoltà contrattuali e personali, si presenta nel 1997 con quello che è il loro undicesimo studio-album in 18 anni di carriera: “The Wake Of Magellan”.

Mettiamo subito in chiaro una cosa: è la prima volta da un decennio che i Savatage rimangono con la stessa line-up dell’album precedente (l’immenso “Dead Winter Dead”) e si sente... L’album, infatti, prosegue musicalmente quanto sperimentato ed espresso nel precedente lavoro, ma attenzione... Non ne è assolutamente la copia e non si rifà nemmeno ad esso... Certo, i punti in comune sono molti (anche questo è un concept e anche in questo le parti sinfonico-orchestrali sono determinanti), ma i nostri continuano, con questo lavoro, la loro strada di evoluzione e perfezionamento, risultando sempre originali e mai statici o adagiati su quanto fatto in precedenza. Infatti “The Wake Of Magellan” è sicuramente meno intimista, emotivo e riflessivo di “Dead Winter Dead”, ma, allo stesso tempo, evolvendo il suono, risulta più teatrale, più “pomposo”, più ambiziosamente imponente... Insomma più legato a un (pre)concetto di “Musical” tanto caro al buon vecchio Jon Oliva (che da quando, entusiasta, vide in teatro “Il fantasma dell’opera” nel 1989 cercò di arricchire sempre di più la sua musica, di quella componente barocca tipica di certe opere).

L’album suona un po’ come una summa di tutto quello che sono i Savatage nel 1997: legati al passato e alle loro origini, mai rinnegate, attraverso canzoni quadrate e tirate dove, come al solito, la fa da padrone la possente, tagliente e ruvida voce di Jon (autore tra l’altro di tutti i testi e di quasi tutte le musiche assieme all’ormai onnipresente Paul O’Neil) come nel caso della pesante e ottantiana “Another Way” o della stupenda e cattiva “Blackjack Guillotine” (dove in realtà canta Zak Stevens)... Attaccati (come al solito) a quella concezione dolce e sognante di Rock-Metal dal gusto retrò, che tanto piace al chitarrista Chris Caffery e al bassista Johnny Lee Middleton, come nell’energica “Turns To Me” o nella semi ballata “Morning Sun”... Attratti da quel sperimentalismo folle che li porta a divagare, a volte, nei campi più disparati della musica come nella strana ed energica “Paragons Of Innocensce”, dove al minuto 2:40 troviamo un incredibile Jon che ci delizia con uno strappo al limite del Rap più incazzato (si, avete capito bene: Rap), o come nella ritmata e “moderna” “Complaint In The System”; una traccia dove l’incidere stoppato e il coro di voci filtrate unisce la componente più Heavy con un’attitudine quasi “industrial” di “nuovo metallo” (Nu-Metal?).

Ma c’è molto di più: i nostri si confermano, al solito, ottimi interpreti, capaci di donarci emozioni anche con i loro incredibili e sognanti pezzi strumentali, dominati dalla splendida chitarra solista di Al Pitrelli... è questo il caso di “Underture” e di “The Storm”, indimenticabili momenti dall’enorme potere evocativo (stupenda soprattutto “The Storm” dove gli strumenti, in un vortice di passionali note in crescendo, sembrano catapultarci davvero nel bel mezzo della più infernale tempesta oceanica) che collegano magistralmente le varie parti finali della storia raccontata.
Personalmente, credo comunque che il meglio del repertorio degli ultimi Savatage ci venga donato dalle parti più maestose, epiche e sinfonico-corali, che il gruppo è riuscito a perfezionare con il passare degli anni... L’album infatti ci regala splendidi esempi di questo nelle prime due tracce: “The Ocean” e “Welcome”; la prima parte con un rumore di onde che si infrangono su una spiaggia, seguito immediatamente dal triste piano di Jon e dall’ingresso di tutti gli altri strumenti che ci accolgono nella malinconica e riflessiva storia del concept in questione... La seconda si ricollega immediatamente alla prima e ci regala uno dei più maestosi e teatrali momenti del disco in questione: siamo di fronte al primo esempio di quello che definisco “Hollywood Metal”, dove la progressione incalzante ed epica dona alla musica una spettacolarità quasi “cinematografica”... Niente a che fare con il fantasy-epic-dragon-hollywood metal di Rhapsody e compagnia medioevaleggiante che comunque quest’album anticipa di qualche mese.

Ma questo non è ancora tutto... Arrivano, nel finale, quelle che sono le più elaborate, complete e imponenti tracce di “The Wake Of Magellan”, quelle per intenderci che esprimono al meglio la componente sinfonico-musicale dei Savatage di fine millennio: la title-track parte con un base di batteria e basso per poi progredire, crescendo, in momenti sempre più coinvolgenti e “metallici” che, sostenuti dal piano e dalle partiture orchestrali (presenti in tutto l’album), sfociano nei possenti e magnifici cori sovrapposti a 6 voci, caratteristici ormai della produzione “savattiana”. Arriva subito dopo la dolce e passionale “Anymore” che, riprendendo le melodie di alcune canzoni e utilizzando cori che oserei definire “angelici e sognanti”, ci offre uno dei momenti più sentiti ed coinvolgenti di tutto il lavoro.

I Savatage ci hanno sempre abituato a canzoni stupende in chiusura e anche stavolta non ci deludono affatto: “The Hourglass” è quanto di più rappresentativo i nostri potevano regalarci per concludere la storia... Siamo infatti di fronte ad un brano che sintetizza e ripropone tutte le sfaccettature dell’album: dal piano sofferto di Jon alla rabbia metallica, dalle dolci melodie che pervadono tutto l’album agli imponenti cori polifonici già citati precedentemente... In una parola: Perfetta.

La prova strumentale e vocale di tutti i componenti, risulta come al solito eccellente... Non c’è una sbavatura o un’incertezza, tutto suona pieno e appagante, e denota una cura maniacale per tutti i particolari. La produzione è perfetta, mai troppo cristallina o confusa e rende al meglio le atmosfere evocate nella storia del concept...
Giusto... Il concept (il terzo per la band) è, come al solito, toccante e poetico... Da brividi. La storia raccontata (interamante scritta dal solito” Paul O’Neil”), unisce magnificamente l’aspetto malinconico della riflessione umana con notizie di cronaca e di attualità che, in quegli anni, avevano non poco turbato l’interesse mondiale.

Non mi dilungherò troppo (forse) nella narrazione, ma voglio ugualmente riassumervi qualcosa.
Tutto ruota attorno alla tenera e triste figura dell’anziano Hector Del-Fuego Magellano (discendente del grande navigatore Ferdinando) che, conversando con il suo unico amico “L’Oceano”, riflette e sui desideri, sugli sbagli e i valori della propria vita. Si ritrova, con sguardo infantile, ad osservare la donna alla quale non è mai riuscito ad esprimere i proprio sentimenti (“Turns To Me”). Riflette tristemente sui valori persi nella sua vita, rendendosi conto che quello che per lui aveva importanza ora non esiste più e che la sua scelta di solitudine in mare è stata a discapito della sua felicità (“Morning Sun”). Trovando sulla spiaggia il cadavere di un giovane morto di overdose, chiede all’oceano come possa essere possibile che la gente butti via la propria vita per futili motivi e con una ”innocenza” lieve piena di leggerezza... L’oceano allora gli risponde raccontandogli la storia di Veronica Guerin, una giornalista che ha sacrificato la propria vita per la lotta contro il “sistema” e il mondo della droga (“Blacklack Guillotine”, “Paragons of Innocence” e "Complaint In The System”). Sopraffatto e inorridito da un mondo che non riesce più a riconoscere, prende la drammatica decisione di partire per mare alla ricerca della tempesta che darà fine ai sui giorni di dolore (“Underture” e “The Wake Of Magellan”). La storia del vecchio si intreccia, nel corso dell’album, con la vicenda (vera) del povero marinaio Miguel imbarcato il una fregata battente bandiera taiwanese, la Maersk Dubai, e che durante il suo viaggio, assiste impotente alla crudeltà del proprio capitano (“poiché un capitano in mare è quanto di più vicino ad un Dio in terra”) nei confronti di alcuni clandestini che non esita a buttare in mare decretandone la morte certa... Miguel riesce infine a salvare l’ultimo dei 4 clandestini, nascondendolo agli occhi dei propri compagni, e a denunciare l’accaduto senza però riuscire a far condannare il capitano (”Another Way” e “Anymore”). Le due storie si toccano quando il vecchio Hector Magellan, durante la tempesta che l’oceano amico ha mandato per esaudire il suo desiderio di morte, riesce a salvare dalle acque il terzo dei 4 clandestini (l’ultimo ad essere buttato a mare)... Ma questo Miguel non lo saprà mai (“The Storm”). Infine il vecchio prega l’oceano di permettergli di tornare a riva e ritardare il momento della sua morte, per salvare la vita del naufrago... Il suo nuovo desiderio viene esaudito ed Hector trova, alla fine, negli occhi innocenti e gentili di un bambino incontrato precedentemente, la forza di continuare a sperare che il mondo possa ancora salvare se stesso da un’egoistica fine...
E torna, solitario, davanti al bar della sua spiaggia a guardare di nascosto la donna che ha sempre amato... Magari un giorno riuscirà a trovare il coraggio per parlarle...

“Quando la notte raccoglierà tenebre
In una nube nera e pesta,
Solo i poeti, i sogni e i folli
Veleggeranno nella tempesta”.

I Savatage, ci offrono una prova incredibilmente convincente dove, come al solito, il connubio tra testi e atmosfere musicali è esaltante...
E voi vi chiederete: Ma come mai ocram, dopo aver così tanto elogiato quest’album, mette solamente 4 stelle su 5 nel voto al disco?
Beh... Diciamolo... Personalmente credo che questo lavoro dei nostri affezionatissimi, sia leggermente inferiore al lavoro precedente o ai loro migliori album, e vi spiego perché.

Mi sembra quasi che stavolta i Savatage, nella loro continua ricerca di perfezionamento ed evoluzione, abbiano trascurato lievemente un piccolo particole: l’aspetto prettamente emotivo e di coinvolgimento “romantico” che aveva caratterizzato “Dead Winter Dead”. Non fraintendetemi... Ci hanno regalato un lavoro eccezionale ed emozionante, con canzoni ai limiti del capolavoro assoluto, e che dovrebbe essere preso ad esempio da tutte quelle giovani band che pretendono di suonare metal... Ma mi sembra (e sottolineo “mi”) che ci offrano una prova non totalmente sentita, una prova insomma, dove il loro coinvolgimento non traspare totalmente dalle loro note e che riflette in me una parvenza di “leggerissima freddezza” e “impercettibile distacco”.

Ma questo è solo il mio parere... A voi l’ardua sentenza!

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