Chi ascolta heavy metal o hard rock è spesso una persona che in realtà si discosta molto dall’archetipo comunemente accettato, ovvero quello del capellone tamarro, borchiato, casinaro e piantagrane da tenere il più possibile alla larga. Epiteti quali “drogato” o “alcolizzato” sono normalmente associati a chi il rock/metal lo suona e lo ascolta e pare che questo modo di pensare della gente “comune” sia naturalmente associato a tutta la musica non addomesticata che viene scrupolosamente ignorata da Mtv.
Chi ascolta heavy metal o hard rock con un minimo di cognizione non si ferma agli scoppiettanti motivetti partoriti da realtà quali Guns’n’Roses o Bon Jovi (per fare i primi nomi che mi vengono in mente) e, senza nulla togliere ai gruppi appena citati, esce dagli schemi tracciati dal marketing delle majors. Perché è sostanzialmente una persona curiosa. E cerca di ascoltare e apprezzare qualcosa di diverso, qualcosa che magari non basi il suo successo (o non-successo) su un video di straordinaria qualità o su una distribuzione planetaria del prodotto. Dico “prodotto” e non “opera” perché una buona parte della musica odierna ricorda più un supermercato all’ingrosso che il laboratorio di un artigiano; ed è confortante sapere che, in questo quadro piuttosto malinconico, nonostante tutto c’è ancora chi suona per il solo gusto di farlo. D’accordo, la pagnotta è la pagnotta e su questo non ci piove, come è pacifico che le noto sono sette e quelle sono. Ma chi apprezza un certo tipo di musica capisce a pelle quando si trova davanti a dei mercenari o a gente convinta di quello che fa. Anche perché spesso il rockettaro, anche se borchiato e tamarro quanto basta, ha un bagaglio musicale di tutto rispetto che spazia dagli anni sessanta fino ai giorni nostri pigliando in mezzo un po’ di blues, di psichedelica e, perché no, jazz, country, canzone d’autore e chi più ne ha più ne metta. Insomma, secondo me il vero rockettaro non può prescindere dal rispetto degli altri generi musicali: può tranquillamente dire “non mi piace” ma mai “fa schifo”. Perché la Musica suonata con il cuore ha sempre lo stesso valore. Cambiano i fattori forse, ma il prodotto non cambia. Tutto questo farneticare solo per introdurre un disco estremamente importante per chi rockettaro lo è stato, lo è o lo vorrebbe diventare. O per chi vuole semplicemente capire cosa significò quella piccola grande rivoluzione musicale comunemente definita “New Wave Of British Heavy Metal” che, all’inizio degli anni ’80, invase il mondo.
“The Eagle Has Landed”, primo album live dei Saxon datato 1982, è uno dei primi dischi metal che ho ascoltato ed è normale quindi che lo ricordi con un certo coinvolgimento. Chissà, saranno stati solo gli ormoni in subbuglio, prodotto della fiorente adolescenza, o sarà che questo primo live del gruppo inglese in effetti rappresenta uno dei dischi più trascinanti nella storia del gruppo (e non solo)? Propenderei per la seconda, non sottovalutando tuttavia il potere dirompente della pubertà...
I Saxon rappresentano, tra i pochi bassi e i molti alti, una delle band di heavy metal più rispettate del pianeta. Un po’ per la forte personalità e presenza scenica del mastodontico singer “Biff” Byford, un po’ per la filosofia che tenacemente li ha accompagnati fin dagli esordi (una filosofia che si può riassumere dal titolo di una delle loro canzoni più recenti: “I’ve Got To Rock (To Stay Alive)”, e molto per la qualità generale della loro musica. Formatisi nell’ormai lontano 1976 i nostri hanno sbagliato veramente poco nella loro carriera (musicalmente parlando) e un ottimo modo per avvicinarsi a questo storico gruppo è acquistare appunto questo grande live che ha l’unica pecca di durare veramente troppo poco. Pur non essendo la registrazione di un singolo concerto, ma un mix di più canzoni tratte dal tour europeo di quell’anno, “The Eagle Has Landed” non perde nulla quanto a coinvolgimento e partecipazione.
L’opener “Motorcycle Man” è introdotta (chi l’avrebbe mai detto?) da un rombo di motociclette apparentemente sfreccianti a velocità folle che, in mezzo a un pubblico osannante, lascia in breve posto allo storico riff di apertura. “Motorcycle man” è i Saxon: incredibilmente coinvolgente e trascinante al punto che ancor oggi, dopo averla ascoltata uno o due milioni di volte, riesco a malapena a trattenermi cercando di non rendermi troppo ridicolo davanti al mio figlioletto. Seguono poi i grandi cavalli di battaglia dei nostri, riproposti ancora nei concerti di oggi senza cedimenti: “747 (Strangers in the Night”), “Princess of the Night”, “Strong Arm of the Law”, “Heavy Metal Thunder” e la repentina “20,000 FT”.
“Wheels Of Steel”, tra l’altro uno dei pezzi più conosciuti (a ragione) nella storia del gruppo, si trasforma in questo live in una vera bomba di puro rock. Procede sul solito binario per i primi minuti fino ad arrivare all’intermezzo in cui Biff, sul sottofondo di basso e batteria, incita il pubblico a cantare con lui “She’s got wheels… wheels of steel!”. Una serie interminabile di minuti che si vorrebbe non finisse mai. E’ senza dubbio il momento più intenso e appagante di tutto il disco e probabilmente uno dei più alti dell’intera carriera dei Saxon, lanciati in quegli anni in un successo e in una notorietà che sembravano inossidabili ma che con il tempo diminuiranno progressivamente. Solo in questi ultimi anni il gruppo sta, meritatamente, venendo rivalutato, un po’ grazie alle sempre buone uscite discografiche (cito l’ultimo lavoro del 2007, “The Inner Sanctum”: ce ne fossero di dischi così…), un po’ grazie a quel loro essere “veri” su ogni palco, uguali e coinvolgenti davanti a duecento persone così come alle folle oceaniche degli ultimi W.O.A. Diciamolo, tutti i grandi gruppi del passato (e non solo) hanno vissuto dei momenti difficili, calcolando male scelte musicali o commerciali, gettando in pasto al mercato dischi troppo diversi dallo stile abituale o semplicemente cedendo alle lusinghe di discografici incapaci. Alcuni di essi sono spariti senza lasciare quasi traccia. Altri, sorretti non solo dalla pagnotta di cui sopra, hanno continuato imperterriti per la loro strada, testardi e ben determinati a non arretrare di un millimetro da quelle che erano le loro scelte iniziali. I Saxon sono anche questo.
Tornando al disco, troviamo in chiusura una tripletta di prim’ordine, ovvero “Never Surrender”, “Fire in the Sky” e “Machine Gun”. Non me ne abbia a male chi non conosce i Saxon, ma davvero non ha senso cercare di descrivere ogni singola canzone: semplicemente, la cosa non può essere riferita a parole. Serve per forza di cose ascoltare. E anche se la produzione dell’epoca (sono passati 25 anni) lascia molto a desiderare, specie se paragonata ai live odierni, la forza e l’esaltazione che questo disco sprigiona sono ancora pure e genuine come note di cristallo su un pentagramma di seta. Un disco di grande, grande rock che consiglio a tutti, tamarri e non (e chi non ne resterà entusiasta può pure mandarmi a quel paese).
E concludo con il titolo di un altro loro pezzo, tratto da “killing Ground” (grande lavoro del 2001): “Rock Is Our Life!"
Onore e gloria imperitura ai Sassoni.
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